¡Que corra la voz!

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Facciamo vivere Radio Despertar
Un progetto di Ya basta! Êdî bese! per ridare voce alla stazione radio del caracol de La Realidad
La Realidad - Bisogna tirarsi giù all'amaca alle quattro della mattina per arrivare puntuali all'appuntamento con i compas di Radio Despertar. Le quattro della mattina che, da queste parti, non è neppure tanto presto. Quando il sole sorge verso le sei, trova i campesinos del caracol de La Realidad già sui campi da un pezzo. A te, ancora mezzo cotto dal sonno, vien da pensare "dormo in auto considerato che, per fortuna, non guido io" ma la strada è talmente sconnessa che ringrazi il dio dell'occidente e anche il Gran Serpente Piumato Quetzalcóatl che non hai fatto colazione prima. Poi bisogna inerpicarsi per una collina e hai appena la forza di accorgerti che il paesaggio che si dipana attorno a te, mentre la nebbia si scioglie lentamente sotto i primi raggi del sole, è tanto bello da togliere il fiato. Dall'alto, la selva Lacandona sembra un manto morbido e soffice di verde intenso, che copre tutto il Creato. Tiri gli occhi ma non trovi traccia della poche fattorie che hai incrociato. Anche la strada balorda che hai appena percorso sembra inghiottite dal verde.
Radio Despertar sorge proprio nel punto più alto della collina. Qui i compas zapatisti hanno tirato sù una antenna lunga 35 metri che, piantata là in mezzo alla selva, fa più effetto della torre Eiffel a Parigi. Proprio sotto di lei, tutta coperta di scritte e di colori, c'è la baracca della radio. "La Radio de Los Marez" si legge sul logo. Marez è l'acronimo di "municipi autonomi ribelli dell'esercito zapatista".
Il giorno prima la carovana di Ya Basta Êdî Bese era stata ricevuta dalla Giunta di Buon Governo "Hacia la esperanza" della Realidad. La radio, ci hanno spiegato i portavoce zapatisti, ci permette di raggiungere tutte le comunità, i villaggi e le piccole fattorie che fanno riferimento al caracol. Nel cuore della Locandona non c'è copertura telefonica, non c'è internet e la stessa elettricità, dove questa arriva, viene fornita saltuariamente da un generatore. La radio a modulazione di frequenza è quindi uno strumento indispensabile per comunicare, fare controinformazione ed anche allertare la popolazione nel caso di azioni da parte di reparti governativi o paramilitari. Già. Perché nel Chiapas la guerra non è ancora finita e il rischio che il Governo voglia tentare di mettere fine alla ribellione zapatista con un violento colpo di mano è sempre in agguato.

Il problema, ci spiega la Junta, è che Radio Despertar da qualche tempo è praticamente muta. La copertura assolutamente insufficiente ed il segnale debolissimo. Di cosa possa essere successo, loro non ne hanno la minima idea. Tocca a noi, il giorno dopo, andare a vedere.

E così eccoci qua. Puntuali all'appuntamento sopra la collina, nel bel mezzo della mitica selva Locandona. I compas zapatisti della radio invece, sono in regolare ritardo. Scrivo "regolare" perché altrimenti non saremmo in Messico. La stazione radio è comunque sorvegliata giorno e notte. Nella prima delle tre stanze in cui è divisa la capanna, c'è un letto con una piccola radio da amatore alimentata da una batteria. Serve per comunicare all'Ezln eventuali situazioni di pericolo, mi spiega il "compa" che era di turno per la notte. La guardia non va mai abbassata e la radio è una cosa troppo importante per perderla senza combattere.
Intanto che attendiamo i responsabili della stazione, diamo una occhiata alle attrezzature presenti. Nella saletta di regia, sotto la foto di Marcos e di una Madonna col paliacate, c'è un vecchio computer che non conosce aggiornamenti da perlomeno un decennio. Neppure un microfono, vediamo. La sala di registrazione è messa ancora peggio. Uno dei responsabili della stazione, giunto nel frattempo, mi fa vedere un amplificatore mezzo arrugginito che in Europa finirebbe in un museo della comunicazione. "Prima ne avevamo uno da 400 watt e la radio trasmetteva abbastanza. Poi si è rotto e ora adoperiamo questo da 200. Ecco perché il segnale è debole".
Ci credo che il segnale sia debole! Praticamente la radio non esiste! "Eppure per noi, questa radio è importante. E' la sola voce che abbiamo per ribattere a tutte le bugie che i media governativi diffondono. La gente è con noi ma noi dobbiamo riuscire a parlare con la gente".
Prima di risalire in macchina, che per arrivare a San Cristóbal dobbiamo sorbirci perlomeno altre sei ore di scassatissima carrettera, li salutiamo con una promessa. Una promessa che, prima ancora che a loro, prima ancora che alla Junta de Buen Gobierno, prima ancora che agli indomiti e ribelli indigeni del Chiapas, abbiamo fatto a noi stessi. Torneremo presto nella selva Lacandona e torneremo con tutta la strumentazione necessaria a ridare voce a Radio Despertarla la Radio de los Marez!

Al sonido de una voz


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Perché ci ostiniamo a tornare in Chiapas
Sono quasi due decenni che camminiamo a fianco delle popolazioni indigene che il 1 gennaio 1994 si sono sollevate in armi per rivendicare giustizia e diritti dopo secoli di soprusi e discriminazioni. Dopo essere stati posti ai margini della storia, sfruttati da governi e imprese straniere per la ricchezza dei loro territori, privati della possibilità di scegliere o anche solo di intervenire nelle decisioni che li riguardavano, hanno ripreso in mano con forza e consapevolezza il proprio destino e hanno iniziato un percorso che li ha portati, e li sta ancora portando, verso la costruzione di un mondo migliore.
Grazie ai nostri viaggi in Chiapas nelle comunità zapatiste abbiamo potuto vedere con i nostri occhi la costruzione di quella autonomia diventata possibile. Gli incontri svolti con le Giunte del Buon Governo ci hanno permesso di costruire insieme alle comunità ribelli progettualità comuni, dal basso, che hanno non solo permesso il miglioramento di alcuni aspetti legati alla vita nella Selva, ma che ci hanno dato l’opportunità di mettere in comune le nostre esperienze, apprendendo l’uno dall’altro conoscenze nuove che sono diventate poi strumenti di lotta che ognuno ha riportato nei propri territori con un rinnovato senso di essere comunità.
Al di là dell’aspetto progettuale, ogni singolo viaggio verrà ricordato anche per i momenti di quotidianità condivisi con gli zapatisti conosciuti negli anni. I racconti di chi ha partecipato alla rivoluzione, di chi ha contribuito alla costruzione dei Caracoles e delle Giunte, ma anche la condivisione di un pasto dopo una lunga giornata di lavoro, le risate e i giochi con i bambini, gli incontri casuali nelle passeggiate fatte nei vari villaggi visitati hanno arricchito le nostre esperienze in Chiapas facendoci conoscere un modello alternativo e funzionante per vivere insieme.
Grazie alla recente carovana abbiamo portato avanti quei percorsi iniziati anni fa da alcuni nostri compagni dando così un nuovo contributo alla costruzione della nostra storia. I più giovani di noi hanno vissuto le prime fasi della costruzione dell’autonomia nella Selva Lacandona attraverso le testimonianze dei primi compagni che anni fa si sono recati in Chiapas. Grazie alle loro parole, accompagnate spesso da quelle con cui il Subcomandante Marcos ha arricchito i comunicati dell’Ezln, ci siamo costruiti un immaginario fatto di libertà, coraggio e volontà di costruire un mondo che come dicono gli zapatisti stessi “contenga molti mondi”.
Le nuove generazioni di militanti stanno inoltre conoscendo una nuova fase dello zapatismo che si è data nel momento in cui l’Ezln ha deciso di appoggiare la decisione del Consiglio Nazionale Indigeno di candidare una donna, María de Jesús Patricio Martínez, alle elezioni presidenziali del 2018. La scelta è stata a lungo discussa all’interno delle singole comunità indigene del paese. È stata anche duramente criticata sia da alcuni zapatisti sia da molti esterni al movimento che ne hanno visto un tradimento degli ideali rivoluzionari da sempre sostenuti. A queste vanno ad aggiungersi le accuse di non essere intervenuti, o di averlo fatto con troppo ritardo, in alcuni momenti chiave della storia recente del Messico – ad esempio, la sparizione dei 43 studenti di Ayotzinapa – e in generale di essersi isolati sulle montagne del sud-est messicano. Nonostante ciò gli zapatisti hanno dimostrato di essere un movimento vivo, capace ancora di crescere e rinnovarsi e soprattutto capace di leggere e interpretare i cambiamenti in corso trovando una forma, la loro forma, per intervenire. Si sono dimostrati in grado di comprendere le necessità della loro gente - la creazione di un Consiglio Indigeno di Governo che possa dare voce a chi fino adesso non ce l’ha avuta –, ma lo ha fatto senza limitarsi a questo, ma dando vita ad un percorso inclusivo e partecipato che parlasse a tutto il Messico, che coinvolgesse tutte le lotte che stanno attraversando il paese, smuovendo le coscienze di coloro che sentono la necessità di gridare insieme e ancora una volta “Ya basta!”. Grazie a questo viaggio abbiamo potuto conoscere e vedere come questa intuizione abbia creato un progetto comune sostenuto da un’eterogeneità di movimenti e persone pronto ad andare oltre la scadenza elettorale.
Per questo sarà altrettanto importante essere ancora presenti quando, a luglio, si svolgeranno le elezioni. La questione della vittoria o meno di Marichuy passa in secondo piano se valutiamo da una prospettiva più ampia la scelta zapatista. Del resto, il risultato è già deciso a tavolino dai partiti che si spartiscono il potere e che stanno ostacolando il suo percorso, ma sarà interessante vedere a che punto è arrivato il cammino del Cni e di coloro che lo hanno intrapreso durante questo ultimo anno. Tra questi ritroveremo quasi sicuramente le lotte dei migranti centroamericani e degli attivisti che abbiamo intrecciato nel nostro percorso. Li accompagneranno le madri e i famigliari che cercano i loro cari scomparsi in Messico, così come gli studenti e i giornalisti che cercano di raccontare la verità al caro prezzo della propria vita.
Ritornare in Messico per portare, ancora una volta, il nostro sostegno e le nostre esperienze ci permetterà di continuare a sostenere un modello di solidarietà transnazionale non basata sull’assistenzialismo, ma sulla ricerca di un modo per mettere in comune i vari linguaggi e strumenti di cui ognuno di noi si è dotato per la costruzione di un nostro domani.
“Ci siamo messi in cammino al suono di una voce”. Così ci siamo raccontati per tanti anni a coloro che ci hanno chiesto chi eravamo e così continuiamo a rispondere a chi ora ci chiede cosa siamo. Perché non abbiamo mai smesso di caminar preguntando, sempre con la stessa voglia e la stessa curiosità di conoscere e capire il mondo, senza smettere di credere che ci siamo schierati dalla parte giusta, in basso e a sinistra.

La Vocera de los pueblos

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Repressione e barriere tecnologiche per frenare la raccolta firme
Sulle orme di Marichuy, la candidata indipendente indigena alla presidenza del Messico
San Cristóbal de Las Casas - C'è un uomo che canta nel grande zócalo di San Cristóbal. In Messico, neppure la politica può fare a meno di una colonna sonora di musica campera. Dietro di lui, un banchetto dove attiviste e attivisti dispensano volantini informativi e raccolgono firme. Siamo a due passi dal balcone dove, in quella indimenticabile notte del primo gennaio 1994, il subcomandante Marcos urlò "ya basta!" contro lo sfruttamento capitalistico dei popoli indigeni.
Le firme che il banchetto raccoglie sono tutte per lei: María de Jesús Patricio Martínez meglio conosciuta come "Marichuy". Una donna di 53 anni, indigena nahua ed esperta in medicina tradizionale, che il Cni, il Congreso Nacional Indígena, ha candidato niente meno che alla presidenza del Messico. Candidatura che in tanti hanno definito pretestuosa, inutile, utopistica, controproducente… ma una candidatura che, in ogni caso, fa paura.
"Le stanno provando tutte per impedirci di raccogliere le firme necessarie - ci spiega Marisol, una attivista indigena -. Si sono attaccati ad ogni pretesto. Ad esempio non possiamo scrivere nei moduli 'la candidata Marichuy' ma 'l'aspirante candidata' altrimenti invalidano tutto. E poi questa storia che le firma vanno raccolte elettronicamente e trasmesse entro lo stesso giorno, pena la loro cancellazione… In un Paese come il Messico dove la maggior parte degli indigeni fatica a farsi dare un documento di identità!"
La raccolta delle firma elettronica è una novità di questa campagna elettorale e, guarda caso, si applica solo alle nuove candidature, proprio come quella di Marichuy! I documenti e le relative firme debbono essere scansionate tramite un tablet - e non con uno qualsiasi, ma in uno di quelli di ultimo modello con l'aggiornamento di sistema, altrimenti l'app non funziona! - e quindi trasmessi entro la mezzanotte del giorno di raccolta all'ufficio preposto. In un Paese del nord Europa la faccenda potrebbe avere un aspetto pratico volto a facilitare le procedure democratiche, ma in Messico, dove la connessione è ancora un privilegio riservato a pochissimi, e, quando va bene, due ore di connessione ti costano due anni di purgatorio per le bestemmie che ti trovi a tirare, la questione assume tutto un altro significato, anche senza contare il costo non indifferente di un tablet di alta tecnologia. E come se non bastasse, l'app ci mette in media oltre 5 minuti per scansionare un documento e non lo "legge" se non è posto sotto un faro di luce bianca! "Qualche giorno fa - continua Marisol - siamo andati in un paese vicino. Abbiamo lavorato tutto il giorno e raccolto più di cento firme. Al momento di inviare tutto all'ufficio elettorale, la connessione è sparita. Non c'è stato verso di collegarsi alla rete in tutto villaggio. Internet è magicamente tornato a funzionare solo dopo che sono scaduti i termini di invio. Tutto da rifare, per noi! Sarà un caso?"

Eppure, tra le tante difficoltà, la candidatura 'impossibile' di Marichuy va avanti, sulla spinta entusiastica di tanti sostenitori, indigeni e non. La Vocera de los pueblos, la portavoce dei popoli nativi, viaggia per le polverose carreteras del Messico, fermandosi a parlare con coloro con i quali nessun politico aveva mai parlato prima. Sulla strada che va da Las Margaritas al caracol de La Realidad, la carovana di Ya Basta! Edi Bese! ha incrociato decine di cartelli che inneggiano a Marichuy. Qui, la Vocera gioca in casa. Siamo in territorio zapatista e, come ci spiegano altri cartelli, "Aquí manda el pueblo y el gobierno obedece". Qui comanda il popolo e il governo obbedisce.
Ed è al termine di questa strada che la carovana di Ya Basta giunge all'ultima sua meta: La Realidad.
La vita quotidiana del centro regionale zapatista che ha il compito di organizza la vita delle comunità autonome non sembra essere cambiata molto dall'ultima nostra visita. All'interno del caracol la Junta de buen gobierno continua con le sue attività di amministrazione, progettazione e sviluppo dei municipi di cui è competente; nel farlo, non manca di portare avanti il modello di democrazia diretta e di autonomia che le è proprio. I membri delle Giunte sono infatti nominati a rotazione, rispettando un criterio di parità della distribuzione di genere, tra i cittadini delle comunità zapatiste, unità più piccola dell'organizzazione rivoluzionaria. Il mandato di ciascuno è sempre revocabile nel momento in cui uno o una dei membri non rispetta i termini del lavoro dell'amministratore. Per queste ragioni parliamo di una struttura istituzionale non-statuale quando guardiamo agli zapatisti: la loro rivoluzione non ha mai voluto prendere il Potere, bensì creare qualitativamente una nuova maniera di prendere le decisioni collettive che dal basso si sviluppa verso l'alto, in una costante tensione tra queste due dimensioni.
Ma allora, se non c'è nessun palazzo di inverno da conquistare, che senso ha la candidatura della vocera indigena? Gli zapatisti hanno voluto allargare ulteriormente il limite del loro orizzonte fuoriuscendo dalle montagne del Chiapas. Senza ombra di dubbio, gli zapatisti non hanno mai peccato di settarismo e di localismo, ben consci del fatto che il Chiapas cambia se si trasforma il Messico e il mondo. La sfida della candidatura, allora, è un passo in avanti in questa direzione in quanto punta all'estensione dell'esperimento dell'autonomia, della democrazia radicale e dell'autogestione. Tutti gli attivisti di appoggio con i quali abbiamo parlato non si riferiscono mai a Marichuy come la candidata: preferiscono sempre il termine vocera perché presuppone che lei sia portavoce di qualcuno, in questo caso di una collettività. L'importante non è vincere le elezioni, o averle come obiettivo strategico, ma dare avvio ad un processo di organizzazione dei popoli indigeni nel quale ciascun soggetto possa intervenire direttamente. Dietro Marichuy si trova il Consejo Indigena de Gobierno, assemblea dove siedono due portavoce - un uomo e una donna - di ciascun popolo coinvolto nel processo. La stessa vocera è sottoposta a costante vigilanza e deve rendere conto delle sue decisioni a quei delegati scelti dal basso, a loro volta vincolati al mandato che ha dato loro il popolo di riferimento. Nel caso Marichuy non dovesse essere eletta o addirittura non essere idonea ai criteri di candidatura, cosa succederebbe? "Resterebbe ciò che abbiamo costruito finora: un esperimento di autonomia a livello nazionale che configge con lo Stato e il capitalismo", ci spiega un compagno zapatista. Una contraddizione in più nel seno del dominio globale del neoliberalismo e del Messico. Un contropotere più esteso territorialmente e più forte.
Di qui vediamo il filo rosso che unisce la proposta della candidatura della vocera dei popoli con le ultime iniziative proposte dall'Eznl. Ad esempio, la conferenza del ConCiencias, e ancora prima quella del CompArte, non hanno come obiettivo la semplice rete degli accademici e degli esperti disciplinari di un argomento. "Senza la riappropriazione dei saperi, dell'analisi del mondo, degli strumenti cognitivi con i quali potenziare se stessi e vedere le contraddizioni della realtà, come possiamo dirci autonomi?", spiega il compagno zapatista. In poche parole, in assenza di una nuova antropologia che pieghi i saperi all'utilità dell'uomo e della natura, e non a quella del capitale, non si potrà mettere in atto un processo rivoluzionario.
Sarebbe un errore, però, attribuire la svolta politica ad una forzatura zapatista. Certo, l'intuizione parte dai Caracoles e dell'Ezln, ma è subito condivisa e fatta propria da una vasta realtà di soggetti sociali e politici, anche da parte di coloro i quali si sono allontanati dalle comunità zapatiste oppure hanno sempre convissuto negli stessi territori senza, però, mai partecipare direttamente alla lotta. Ovviamente, la progressiva inclusione di altri non è stata un processo liscio e lineare.
"All'inizio, la proposta degli zapatisti, fatta propria dal Cni, ha suscitato parecchie perplessità. Non possiamo vincere, perché la partita in cui gioca questa democrazia è truccata. Ed inoltre, non ce lo permetterebbero mai. Non sappiamo neppure se riusciremo a raccogliere i voti per arrivare ad una candidatura ufficiale, in queste condizioni. Pensa che un attivista europeo ci aveva regalato un moderno cellulare capace di scansione i documenti e la polizia ce lo ha sequestrato, invalidando pure tutte le firme raccolte, appellandosi ad una legge che vieta l'intromissione di capitali stranieri nella politica elettorale del Messico. Magari la facessero valere anche per gli Stati Uniti, questa legge".
A parlare è una attivista che lavora stabilmente da tre anni con le comunità zapatiste della Lacandona. Non scriveremo il suo nome. Il Messico ha notoriamente l'espulsione facile e la nostra amica ci ha chiesto l'anonimato. "Ho capito il perché di questa candidatura solo lavorando fianco a fianco dei tanti comitati che in questi ultimi mesi sono sorti a favore di Marichuy. Ho visto donne e uomini, indigeni ma non solo, farsi ore e ore di coda in attesa che l'app decidesse di funzionare e poter digitalizzare la firma; ho visto comitati che prima lavoravano per conto proprio e su un singolo problema, fare rete, discutere e mettere in comune le lotte; ho visto organizzazioni sindacali e associazioni ambientaliste scendere in campo assieme rendendosi conto che le ingiustizie che devastano l'ambiente sono anche quelle che sfruttano il lavoro; ho visto formasi comitati a sostegno della vocera in Stati del Messico in cui neppure sanno cosa sia lo zapatismo; ho visto persone disilluse tornare alla politica con gioia, macinare utopie e urlare che un altro mondo non soltanto è possibile ma anche indispensabile".
Comunque la si pensi, la candidatura "impossibile" di Marichuy ha dato una scossa alla stantia politica messicana. L'ultima domanda, a questo punto, è: a cosa porterà tutto questo? "Lo sappiamo già cosa sta arrivando - conclude la nostra amica attivista -: una ondata di repressione come non se ne vedeva da tempo. Il Messico è una frontiera del capitalismo globale. Narcotraffico, Stato ed economia sono sempre più commistionati l'uno con l'altro. La violenza, sia quella legale della polizia che quella terroristica dei narcos, è l'arma con la quale rispondono alle lotte sociali. C'è da aver paura, certo, a sostenere la vocera ma è quello che è giusto fare e sempre al nostro posto ci troveranno".

Compartir la salud, compartir la vida

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La società è malata, lo zapatismo è la cura
A San Cristóbal nasce Radici nel Vento, un progetto di salute dal basso
San Cristóbal de las Casas - Che non sia esattamente un quartiere residenziale dell'alta società, il barrio di Cuxtitalli, lo si capisce subito. Siamo ad una sola mezz'ora di scarpinata in salita dallo zócalo di San Cristóbal, eppure siamo in un altro mondo. "Qui sono tutti indigeni, per la maggior parte tzozil. Lo spagnolo è la seconda lingua" ci spiega Nina. Lei è una attivista dei movimenti romani. Da otto anni si è trasferita in Chiapas col compagno, Fabio. Entrambi fanno parte del nodo solidale alla lotta zapatista. Qui sono nati i loro due figli. Qui hanno continuato quella lotta per la casa, la salute ed i diritti che ha caratterizzato tutta la loro vita. Qui hanno comprato una casa che oggi è un punto di riferimento per tutti i compagni che, per un progetto o per l'altro, passano per il Chiapas.
Il piano terra è diventato la Casa de Salud Comunitaria Yi'bel Ik'. Termine, quest'ultimo, che in lingua tzozil significa "Radici nel vento". "Radici, perché con le radici noi ci curiamo e perché è nel recupero delle radici che noi vogliamo costruire il futuro - ci spiega una ragazza indigena -. Vento, perché non sta mai fermo, nessuno può dire dove possa arrivare".

Non ci sono strade pavimentate a Cuxtitalli. E neppure gli eleganti negozi dell'avenida Real de Guadalupe, la strada principale di San Cristóbal, perennemente affollati di turisti e di suonatori ambulanti. "Eppure qui la gente ha saputo costruire una sua autonomia - continua Nina -. Ci sono rappresentanti di calle e di plaza che affrontano i problemi quotidiani consapevoli che il disagio di uno è il disagio di tutti. Anche l'acqua, che in Messico è privatizzata e gestita in maniera vergognosa, qui ha una soluzione comunitaria. La rete idrica pesca da due fonti, situate sopra la montagna, che vengono gestite come bene comune. Naturalmente, l'azienda idrica privata di San Cristóbal ci fa la guerra, ma a Cuxtitalli la parola resistenza ha ancora un significato profondo e radicato".
Il progetto "Radici nel Vento" aderisce ufficialmente alla Sesta Dichiarazione della Selva Lacandona. E dagli zapatisti, Nina e gli altri attivisti, italiani e messicani, hanno mutuato il concetto di "promotores de salud"; l'idea che la salute sia un bene comune che va promosso.
"La vera malattia che ha la gente di Cuxtitalli è la povertà - continua Nina -. La sanità pubblica esiste ma… è una vera merda! Gli ospedali non dispongono non soltanto di medicine, ma neanche di garze e siringhe. Se sei ricoverato è difficile che venga un solo dottore a visitarti. Come se non bastasse, gli indigeni vengono lasciati sempre per ultimi, specie se parlano male lo spagnolo, e sono costantemente discriminati".
La Casa de Salud Comunitaria non vuole, né potrebbe essere, un vero presidio medico, anche se sta per dotarsi di un consultorio. Le attiviste, quasi tutte donne, hanno comunque qualche conoscenza di medicina e si preoccupano soprattutto di fare informazione medica. Ci sono anche un medico di base e un dentista che periodicamente lavorano nella struttura. "Ma quello che ci preme di più è condividere il sapere, insegnare alle persone ad intervenire in casi particolari, ad esempio con le manovre di rianimazione, e diffondere le corrette pratiche igieniche. Pensiamo al nostro progetto come ad un anello di congiunzione tra la scienza medica e la gente comune che non ha accesso a nessuna cura. Tante volte, basterebbe poco per far star meglio una persona!"
Tra i pueblos indigeni quando qualcuno si ammala, viene portato dal curandero o dallo sciamano. Un po' perché questa è la loro tradizione, un po' perché non viene data loro altra possibilità. Gli zapatisti hanno adottato un sistema sanitario molto pragmatico basato sul principio che, se una cosa funziona, funziona: hanno liberato le comunità da credenze irrazionali e pratiche di stregoneria per recuperare saperi legati alle erbe curative che si sono rivelate efficaci. Inoltre, hanno formato dei volontari- i promotores, per l'appunto - che girano per i villaggi e sono un punto di riferimento per la maggior parte delle patologie che qui si riscontrano, come i traumi o gli avvelenamenti da serpente. Le promotoras, inoltre, insegnano alle donne le pratiche di contraccezione e come aver cura del proprio corpo.
La Casa de Salud riprende questo insegnamento zapatista, mettendo al centro un concetto tanto semplice quanto essenziale: che la persona a cui si indirizza la cura terapeutica è un soggetto e un oggetto. Intendendo per salute sia la condizione fisico-psicologica che sociale, secondo questa ottica, coloro che vogliono essere curati sono parte integrante della stessa terapia e decidono come procedere. L'approccio sostiene che la patologia non sia un semplice insieme di sintomi contro i quali bisogna ritrovare l'equilibrio fisiologico, ma che l'intera persona - nella sua interiorità e nella sua condizione sociale - sia in gioco quando parliamo di malesseri e patologie. Di conseguenza, bisogna adottare le cure più efficaci: talvolta può essere l'uso della pianta medica, altre l'essenziale accesso all'alimentazione basilare e ad una casa, altre l'ospedalizzazione. In quest'ultimo caso, soprattutto per quanto riguarda le popolazioni indigene, c'è bisogna di una vera organizzazione collettiva per far fronte ad esclusioni, discriminazioni, carenze strutturali del servizio.
"Questo punto è estremamente importante - prosegue Nina -. La salute è una questione collettiva e non individuale. Riappropriandoci dei saperi medici, ognuno può sapere come prendersi cura del proprio corpo. Questo non significa rifiutare i medici o la loro conoscenza, bensì piegarli alle esigenze che si esprimono dal basso". Una frase che risuona uno dei propositi della conferenza ConCiencias, prevista per questo dicembre a San Cristobal proprio per trovare una soluzione collettiva a queste necessità.
Radici nel Vento funziona secondo lo stesso principio. Lo zapatismo non è una ideologia ma una pratica di lotta. "Quando i maestri sono scesi in piazza a San Cristobal, la polizia e l'esercito hanno reagito violentemente. Botte, spari, gas velenosi… non c'erano certo medici disposti ad assisterli, e abbiamo dovuto imparare da soli come prestare le cure necessarie".
Da un lato, violenza e prigionia contro chi si ribella, dall'altro, povertà ed emarginazione per chi non ha la forza di sollevare la testa. Queste sono le malattie implicite nel capitalismo. Un capitalismo che ha infettato la società. Lo zapatismo è la cura.

Hay que seguir soñando

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Migranti in cammino tra la violenze dei narcos e quella dello Stato
Lungo i binari dove corre la Bestia, sorge l'Albergue, un progetto di accoglienza dal basso che salva centinaia di vite
Ixtepec - Non ci sono treni passeggeri in Messico. La rete ferroviaria esiste, ma i soli treni che vi transitano trasportano merci. Eppure, sono tanti - uomini, donne, bambini, intere famiglie - sono tantissimi i migranti che si aggrappano ai vagoni scuri e sporchi di quel treno, e gli affidano le loro vite e la speranza di superare i muri di confine. Lo chiamano "la Bestia".
In centro America come in Europa, in Messico come in Italia, i migranti non sono nient'altro che merci. Ma sono quegli stessi muri che li respingono a trasformarli in merce. In roba che si vende e si compra: manodopera a poco prezzo per i latifondi o per le minas, carne da cannone per le bande di narcos, schiavi da marciapiede nei viali o nelle case chiuse della prostituzione, organi per i ricchi mercati chirurgici degli Stati Uniti.
Il prezzo del biglietto lo contratti con i coyotes che ti ci fanno salire, su quel treno. Qualche volta ti costa tutto quello che hai, qualche volta la vita, qualche volta il prezzo è ancora più alto. Ci sali nell'indifferenza di chi, in quel confine che ti separa dal futuro, è nato dalla parte giusta. Ci sali nella complicità della polizia, delle istituzioni e di quella politica che urla alla "tolleranza zero", ai "pericoli della clandestinità", alla "difesa della nazione" e di presupposti "valori culturali".
Oggi questo treno transita ancora per Ixtepec. A nord, i binari hanno uno scartamento diverso e la Bestia è obbligata a fermarsi, regalando la possibilità ai fuggitivi di scendere senza rischiare troppo l'osso del collo.
Ma i migranti che scelgono di cavalcare la Bestia sono sempre meno. Ma non certo perché la loro situazione sia migliorata. Anzi. Il muro è ancora là.

Il Governo messicano ha adottato una nuova strategia nel 2014 che ha chiamato Plan Frontera Sur.
"Le immagini di questi vagoni strapieni di carne da macello avevano fatto il giro del mondo e per il Governo non era più possibile tollerare una situazione che denunciava la sua complicità nella tratta dei migranti - ci spiega Daniel, un volontario spagnolo che lavora nell'Albergue di Ixtepec - Così hanno aumentato la velocità dei treni, rendendo impossibile ai migranti aggrapparsi ai tetti. Una soluzione che non è una soluzione, perché sono intervenuti sulla conseguenza e non sulla causa. Se oggi sono pochi coloro che si arrischiano ancora a salire sul treno, la gente che non ha altra scelta che abbandonare la sua casa e mettersi in cammino esiste ancora! E senza treno, il viaggio è ancora più lungo e pericoloso perché significa affidarsi totalmente nelle mani dei narcos e dei coyotes. Noi che facciamo accoglienza, lo vediamo bene. Praticamente, alle porte del nostro Albergue, non bussa più una donna che non sia stata stuprata o un uomo che non abbia dovuto subire violenze inenarrabili".
L'Alberque accoglie tutti. Non dipende da nessuna organizzazione statale e - sorride Daniel mentre ce lo racconta - proprio per questo riescono ad essere di servizio ai migranti! In tutto il Messico ce ne sono una cinquantina. Una vera e propria rete di sostegno per aiutare i migranti nel loro percorso verso nord, verso una speranza di vita. Un progetto di accoglienza diffusa e dal basso che ha salvato la pelle a tanti migranti. Un progetto che si fonda su principi radicalmente diversi da quelli capaci solo di creare ghetti e di aprire baratri di disperazione. Ed è impossibile per noi italiani, intanto che Daniel ci mostre le strutture del campo, non pensare a quanto sta accadendo a Cona.
La prima cosa che i volontari degli albergues fanno è quella di informare i migranti che hanno dei diritti. Non è un passaggio da poco. "Molti di loro non sanno neppure cosa siano i diritti. Gli sembrano cose da signori… privilegi da ricchi…" Poi gli offrono assistenza legale, un tetto, cibo, medicine… Organizzano corsi di alfabetizzazione o di agricoltura. Ci sono anche dei giochi per i tanti, troppi, bambini che si sono messi in viaggio con i loro genitori e, qualche volta, arrivano soli.
"Siamo consapevoli che di più non possiamo fare. In fondo questa per loro è solo una tappa in un cammino molto più lungo - ci spiega Daniel -. Sono pochissimi coloro che si fermano qui. La stessa violenza, la stessa povertà che li ha allontanati dai loro Paesi, li insegue anche nello Stato di Oaxaca. La loro meta sono gli Stati Uniti, dove qualcuno ha un parente o ha sentito che si trova lavoro. Il nuovo presidente Trump ha alzato altri muri. E' difficilissimo oggi ottenere un visto. Ma, come per tutti i muri che alziamo, questo non impedisce loro di mettersi in cammino, crea solo altra sofferenza e altre ingiustizie. Le stesse sofferenze e le stesse ingiustizie che poi sono le cause vere del loro migrare. Quello che pochi hanno compreso è che questa gente, per fare quello che ha fatto, non ha avuto altra scelta. Hay que seguir soñando. Devono proseguire confidando in un sogno".

Los escombros de la pobreza

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Le catastrofi non sono mai naturali
Lo Stato del Oaxaca dopo il terremoto
Juchitán - I cumuli di macerie interrompono la strada sterrata che porta allo Zócalo di Ixtepec, cittadina nel sud del Messico, precisamente nello Stato di Oaxaca. Qualche edifico incrinato con la facciata piena di crepe si distingue dagli altri, per il resto uguali tra loro nel modulo tipico del meridione, bassa altezza, forma rettangolare, tetti inesistenti. Un grosso albergo accanto alla piazza centrale del Paese è messo in sicurezza dai nastri ufficiali, i muri dei suoi recinti sono sgretolati a terra.
‘Tutto sommato - affermano le padrone dell’albergo che ci ospita - qui non si sono verificati grossissimi danni. Siamo più che altro rimasti segnati dalla paura, che ti prende di soprassalto ogni volta che arriva una scossa di assestamento’. Le réplicas sono del resto giornaliere - basti pensare che nel nostro secondo giorno a Ixtepec ce ne sono state ben due.
Il vero marchio di riconoscimento del terremoto si nota però a Juchitán. A soli 16 chilometri da Ixtepec, la città - centro di periferia della zona - è stata profondamente segnata dalla inaudita scossa di terremoto del 7 di settembre. Il palazzo del mercato rimane vuoto e isolato dalle autorità a causa del dissestamento che ha subito. La parte laterale della costruzione è leggermente inclinata e una parte della torre dell’orologio è stata divelta.
‘Almeno abbiamo potuto rimettere i nostri banchi qui di fronte’, sospira una venditrice di fiori. ‘Piano piano stiamo iniziando di nuovo a vivere nel quotidiano’. Attorno a lei un labirinto di banchi definisce la nuova, provvisoria piazza del mercato di frutta, verdura, carne e vestiti. Dei supporti e dei gazebo in legno sono stati montati per dare a ciascuno il suo punto di vendita. La piazza è affollata, tanto che in alcuni punti risulta difficile passare data la strettezza dei corridoi di questo tortuoso labirinto.
‘Molta gente ha perso il lavoro perché è fallita la sua impresa oppure è crollato il suo negozio. Come fa una persona a reinventarsi in una professione di punto in bianco?’, ci racconta il taxista che ci ha accompagnato alla cittadina, aggiungendo che, dopo la minaccia proveniente dalla natura, hanno dovuto fronteggiare i saccheggi da parte del proprio vicino, dell’altro. ‘Ma per fortuna non tutti si vogliono approfittare della situazione di tragedia che tutti noi viviamo. Si sono dati tanti momenti di solidarietà e condivisione, tra chi ha ospitato gente rimasta senza casa nel suo appartamento e i gruppi di vicino che organizzano i pasti in comune’.

Il processo di ricostruzione procede a rilento e senza l’aiuto effettivo del Governo. L’unica manifestazione dello Stato sta nell’ordine della cosiddetta sicurezza, cioè nell’aver dispiegato più pattuglie dell’esercito e della polizia per le strade a presidiare banche, negozi e il mercato. Certo, a coloro che hanno perso la casa lo Stato federale ha dato 120 mila pesos, ma rimangono insufficienti e mal ripartiti tra i richiedenti. Infatti, ci spiegano gli abitanti di Juchitán, molto abitanti che non hanno subito danni ingenti alla casa, non dovendo portare documentazioni e prove dell’erosione delle proprie abitazioni, fanno domanda per i fondi, sottraendoli alle casse pubbliche. In generale lo Stato federale ha previsto un fondo per le ricostruzioni dovute alle catastrofi naturali, tra cui figurano in primo luogo i terremoti vista l’alta probabilità che in una zona sismica come il Messico possano accadere - come il terribile sisma del 1985. Il problema è che il governo non sta impiegando tutte le risorse a sua disponibile, negando di fatto la definizione del Oaxaca, del Chiapas e di Ciudad de México come aree distratte in quanto, altrimenti, sarebbe costretto a sbloccarlo. Peraltro, anche le donazioni arrivate da altri Paesi come Cuba sono state trattenute dal governo e non devolute alla popolazione.
‘Ci hanno lasciati fondamentalmente soli. La gente si sta ricostruendo da sola la sua casa’, dice tristemente la ragazza del banco di fiori. Se è vero che il governo ha contrattato i prezzi del calcestruzzo e dei mattoni con le grandi industrie per renderli più a buon mercato, dall’altra parte ogni famiglia deve farsi carico da sola per la messa in sicurezza della propria casa, la ricostruzione oppure la ricerca di una nuova abitazione da zero. ‘Qui da noi è sempre stato così: le persone si sono sempre costruite da sole le case con i materiali che riuscivano a recuperare’, dice il taxista, più ottimista della ragazza rispetto al supporto della politica. Ma anche questi ammette la grande verità di fondo: i disastri naturali toccano tutti, ma alcuni più degli altri. ‘Alla fine, chi è povero o non ricco in generale è maggiormente esposto per il materiale con cui si è costruito la casa. Così come, dopo il terremoto, è sempre il povero a incorrere nelle difficoltà della disoccupazione, della mancanza di casa e di sicurezza sociale. Basti pensare che molte delle scuole pubbliche non sono state ancora riaperte a danno delle migliaia di bambini e giovani in età scolare che non possono permettersi l’istruzione privata.
Quando raccontiamo al tassista dello stato in cui versano le nostre popolazioni e città terremotate dopo quasi dieci anni dal sisma de L’Aquila e a un anno da quello del centro Italia, ci viene risposta una tanto evidente quanto cruda verità. ‘Da che mondo e mondo, la regola è sempre la stessa: il povero continuerà ad essere sempre il povero. Il terremoto ha fatto vedere che c’era gente che viveva in stato di povertà e con case di cartapesta. Dopo il terremoto la gente continuerà a vivere in povertà e in case di cartapesta’.

Solo quieren vivir

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La dignità dei migranti del Centroamerica
Intervista a Ana Enomarado del "Movimiento Migrantes Mesoamericano"
Città del Messico - Abbiamo salutato Ana Enamorato a Venezia, quando aveva portato a Ca' Bembo, nell'esposizione Huellas de la memoria,  decine e decine di scarpe calzate dalle madri, dai padri e dei fratelli dei migranti desaparecidos nelle frontiere centroamericane. La troviamo oggi a Città del Messico dove è portavoce del Movimiento Migrante Mesoamericano ed aiuta i genitori dei migranti scomparsi a ripercorrere le orme dei loro cari, nella speranza di trovare qualche traccia del loro passaggio. 
Ci accoglie nella sua casa, in una grande stanza piena di piante verdi. Ci abbraccia e ci offre un caffè italiano. Ha un sorriso esausto.
"Città del Messico ha dei ritmi stressanti che ti mettono in ginocchio", ci spiega. Ma ben presto capiamo che vivere in una delle metropoli più grandi al mondo diventa ancora più estenuante se ci si fa carico dell'impegno quotidiano in una associazione difficile come la sua.
La storia di Ana è un intrico di personale e politico che difficilmente può essere sbrogliato. La cruda intensità dell'esperienza emotiva che ha dovuto sopportare con la sparizione del figlio, partito dall'Honduras alla volta dell'American Dream per cercare condizioni di vita migliori, si unisce all'organizzazione del movimento per la difesa dei diritti dei migranti centroamericani e per la ricerca dei desaparecidos. La dimensione singolare di ciascuno e ciascuna, il dolore e lo sforzo per la ricerca e per le migrazioni diventano strumenti di lotta per tutti e tutte grazie all'organizzazione collettiva fornita dal movimento. In particolare, Ana e il suo collettivo si occupano di facilitare le pratiche burocratiche per la richiesta di asilo e per il permesso di soggiorno alle persone provenienti, nella fattispecie, dall'Honduras, da El Salvador e dal
Guatemala; parallelamente, mettono a disposizione contatti e strutture politico-logistiche atte alla ricerca dei migranti di cui non si hanno più notizie in seguito alla loro partenza, soprattutto quando questa è dettata dalla necessità di scappare dal pericolo di morte.
"Le persone sono sempre più costrette a fuggire dal proprio Paese per salvarsi la vita", afferma Ana, ricordandoci come le bande del terrore, le maras, continuino con i loro affari economici e le loro scorribande criminali totalmente impunite. Le centinaia di migliaia di giovani che lasciano alle spalle famiglia e attività commerciali corrispondo spesso a coloro che non hanno alternativa davanti a sé: o la fuga o la morte. I primi ad arrivare in Messico vanno incontro all'apparato amministrativo che criminalizza i migranti. Le persone in fuga, difatti, vorrebbero richiedere l'asilo per permettere in seconda battuta il ricongiungimento familiare, una tra le vie legali per portare in salvo i propri cari, costantemente sotto minaccia da parte della criminalità organizzata. Lo Stato del Messico ha però predisposto delle normative e delle procedure pratiche che rendono complicato il conseguimento delle carte necessarie. "I migranti devono dimostrare di aver sporto denuncia nel loro Paese di origine. Il problema è che in quei luoghi la polizia è connivente con le bande criminali, parte integrante dei sistemi di potere degli Stati". Privi della protezione dello Stato messicano, i migranti sono così esposti alle ritorsioni nei confronti dei familiari e alla mancanza di incolumità: le braccia delle maras arrivano fin dentro i confini messicani, mietendo vittime innumerevoli.
Ad aggravare ulteriormente il quadro delle migrazioni in Messico si aggiunge il blocco ermetico alla frontiera Nord che gli Stati Uniti portano avanti da anni. Poco è cambiato, al di là delle altisonanti dichiarazioni, con l'elezione di Trump alla Presidenza: in ogni caso, la frontiera ha da sempre rappresentato un muro fisico senza aver bisogno dei mattoni data la pesantissima militarizzazione del confine, attorno al quale si registrano centinaia di morti ogni anno. La politica di chiusura degli Stati Uniti è complementare a quella del Messico, che non differisce molto dalla sua controparte americana nonostante tutte le accuse mosse da Peña Nieto a Trump riguardo il muro e lo schiacciamento dei diritti umani. Il Messico dimostra di avere lo stesso atteggiamento di rifiuto, criminalizzazione e repressione delle migrazioni, come non è difficile da notare se si sposta lo sguardo sui centri di detenzione per i migranti.
Il lavoro del Movimiento Migrantes Mesoamericano, assieme a quello di altre associazioni e collettivi, assume, dunque, il compito di rompere con le politiche pubbliche migratorie e con l'immagine che si dà delle persone migranti, oltre alle attività di mutualismo e di sostegno logistico-legale. "Dall'1 al 18 di dicembre una carovana di madri dei desaparecidos attraverserà il Paese per sensibilizzare la cittadinanza messicana sulle condizioni dei migranti e sui soprusi che sono costretti a subire. Allo stesso tempo, la carovana sarà un modo per avvicinare le esperienze dei e delle migranti a quelle degli autoctoni, facendo vedere che sono molto simili se non uguali".
Con queste parole Ana si riferisce al fenomeno generale delle sparizioni forzate - di cui ricordiamo quella dei 43 studenti di Ayotzinapa - che potenzialmente possono subire tutti i messicani in quanto arma di estrema vendetta e di repressione della dissidenza o di coloro che non sottostà ai potentati criminali. La donna sottolinea quanto i racconti delle madri, in totale quaranta a partire con la carovana, abbiano un effetto purificatore dello stereotipo del migrante che viene assorbito dai messicani a causa della propaganda istituzionale. Nel momento in cui vengono condivise storie e biografie segnate dalla violenza criminale e dalla negligenza di Stato, per non parlare della vera e propria connivenza istituzionale, davanti agli occhi degli autoctoni scorrono immagini il cui contorno è molto conosciuto, semplicemente ne cambiano gli attori. Quante famiglie devono lottare per riavere i corpi dei parenti scomparsi? In quanti si trovano a combattere anche contro lo Stato, che pensa di chiudere le ricerche dando delle ceneri non analizzabili alle famiglie? Per molti sono delinquenti, per altri rappresentano un problema. Cosa vogliono davvero coloro che migrano?
"Solo quieren vivir", risponde Ana. Vogliono soltanto vivere.

Vivos los queremos!

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Contro las mentiras, giustizia per i 43 di Ayotzinapa
Davanti alla Procura Generale Federale un presidio lungo 1139 giorni chiede giustizia
Città del Messico - Il Paseo della Riforma è una della strade più eleganti della capitale messicana. Grandi marche, negozi di lusso, ristoranti esclusivi, i grandi palazzi istituzionali, tra i quali la Procuradia General de la Republica. Ed è proprio davanti alla facciata barocca della procura generale che troviamo un… accampamento con tanto di tende, installazioni, bandiere e striscioni che colpisce i passanti come un pugno allo stomaco. A colpire chi passa per il Passo sono soprattutto quelle 43 immagini. I 43 volti dei giovani studenti della scuola di Ayotzinapa, fatti scomparire il 26 settembre 2014 a Iguala. Una scritta in grande e in costante aggiornamento segna il numero "1139".

Cosa significa, ce lo  racconta Adrian, un attivista dei diritti civili che ci fa entrare nell'accampamento e ci accoglie come compagni. "Sono i giorni che siamo qua. Oggi sono 1139, domani saranno 1140 e dopodomani 1141. Noi non ce ne andiamo via sino a che non ci avranno detta tutta la verità sui ragazzi desaparecidos". Adrian fa parte dell'associazione Plantòn por los quareianta y tres che raccoglie varie associazioni che appoggiano le richieste dei familiari degli studenti desaparecidos. "Perché siamo su questa strade elegante davanti alla Procuradia General?  Perché questo è il luogo dove è stata fabbricata la mentira historica. Qui si sono inventate tutte le bugie che il Governo ha diffuso per nascondere la verità su ciò che è accaduto nella notte tra il 26 e il 27 settembre 2014. Una mentina historica che è stata più volte smentita dalle prove raccolte dai membri del Giei, un’equipe di antropologi forensi internazionale che si è occupata di raccogliere le prove necessarie per dimostrare che i corpi dei 43 desaparecidos non sono stati bruciati nella discarica di Cocula, come invece ha sempre sostenuto il Governo, e che ha contributo a dimostrare il coinvolgimento dell’esercito e di altre autorità che quella notte erano presenti sul luogo. Quello che è accaduto non può essere fatto passare solo come uno scontro tra narcotrafficanti".
Adrian ci spiega che la loro presenza fissa in quel luogo è necessaria per non far calare l’attenzione sul caso. Tre anni fa il movimento nato dalla solidarietà espressa nei confronti dei 43 studenti aveva fatto sì che vari collettivi e organizzazioni messicani si unissero nella richiesta di giustizia. Ora, con l'approssimassi delle elezioni politiche federali, il rischio è che l’appoggio della gente e della stampa, nazionale e internazionale, venga meno, facendo il gioco di coloro che si sono macchiati di questo crimine. "Per questo, noi non ce ne andremo da qui. Continuiamo oggi come ieri a chiedere giustizia per i nostri studenti e che i colpevoli non rimangano impuniti. Vivi ce li hanno presi, vivi li rivogliamo”.

Tutti i colori dell’ingiustizia. La Patagonia di Benetton tra violenze e desaparecidos

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Giù, giù, verso sud. Giù, lungo la Ruta 40 raccontata da Chatwin, La Ruta 40 che parte da Buenos Aires e si ferma solo ad Ushuaia. Dopo non c'è niente: è la Fin del Mundo. Sempre a sud, tra gli spazi sconfinati della Patagonia, quando arriverete vicino alla cittadina di Leleque - quattro case in croce per poco più di cento abitanti -, non crederete ai vostri occhi nello scorgere un grande cartellone pubblicitario che vi informa che in quell'immenso niente qualcuno ha costruito un museo. Un museo dedicato al "pueblo desaparecido", il popolo scomparso, realizzato dalla Benetton.
Già, perché tutto quell'infinito che vedete attorno a voi - terra, acqua e anche il cielo, se fosse possibile confinarlo - appartiene al Gruppo trevigiano. Lo ha comprato nel “reparto occasioni" nella svendita avviata dal presidente Carlos Menem (ve lo ricordate? L'amico personale del Berlusconi!) nel '91, quando una Argentina appena uscita dalla dittatura doveva pagare i tanti debiti accumulati dalle eroiche imprese delle giunte militari. In cambio di dilazioni e finanziamenti, il Fondo Monetario Internazionale aveva chiesto al Governo sudamericano di vendere tutto quello che poteva vendere e privatizzare tutto quello che ancora rimaneva da privatizzare. Il provvedimento, come era ragionevole attendersi, fece piombare l'Argentina nella crisi monetaria più pesante della sua storia ed ebbe come effetto la messa all’asta delle terre mapuche. E senza che, per questo, qualcuno abbia mai chiesto l'opinione dei mapuche che, come loro affermano, "viviamo in queste terre sin dal 11 ottobre del 1492". Come dire: da prima che arrivasse il Cristoforo Colombo con le sue cazzo di caravelle.


A proposito, sono loro il "pueblo desaparecido" cui i Benetton, che furono i principali accaparratori di quelle terre, hanno dedicato il loro elegante museo. Va da sé che i mapuche, che non si sentono ancora "desaparecidos" del tutto, non vedono di buon occhio le installazioni di Leleque. Questo il motivo per il quale, tutte le volte che ci sono passato, il museo è circondato da reparti dell'esercito con i mitra spianati.

Il resto, sono tutte storie di quotidiana ingiustizia. Violenze, botte, stupri, assassinii e sgomberi forzati da una parte, resistenza e guerriglia da quell'altra.
Resistenza che non si è mai fiaccata, nonostante la disparità delle forze in campo e che, al contrario, si sta allargando in tutte le terre che i mapuche "recuperano" al furto, abbattendo le barriere di filo spinato e organizzandosi in comunità autogestite. Cosa che, d'altra parte, hanno fatto in tutta la loro storia.
Mai amati e tantomeno sostenuti dalle autorità di Buenos Aires, i mapuche hanno comunque ottenuto importanti riconoscimenti, come quello non affatto scontato del diritto di esistere come comunità indigena, durante i governi di Néstor e Cristina Kirchner. L'arrivo di Mauricio Macri e con lui della destra liberista, un paio di anni fa, ha portato ad un giro di vite nella questione sino alla tentazione, sempre insita nelle destre di tutto il mondo, di trovare una "soluzione finale" al problema indigeno. Argentina e mapuche sono arrivati ad una vera e propria guerra non dichiarata che ha fatto pensare ad una nuova Conquista del desierto, come ha denunciato il giornale La Jornada. La Conquista fu una campagna militare portata avanti dal governo argentino per mano del generale Julio Argentino Roca negli anni 1870 contro gli indigeni del sud e che sfociò in un vero e proprio genocidio.

Il pugno duro del Governo Macri ha avuto come contropartita anche un cambio all'interno della Benetton che ha affidato la gestione di quelle terre dove ricava perlomeno il 10 per cento della lana di cui ha bisogno, a Ronald Mc Donald, uno "scozzese coriaceo" come lo definisce Repubblica. "Un tipo duro, dai modi spicci. Conosce queste terre, sa come trattare gli imprevisti". Non ama i mapuche e non fa nulla per nasconderlo. "Mi sembrano fuori dal tempo - dice. - È come se oggi andassi nell’Inverness, in Scozia, e rivendicassi la terra dei miei antenati. Una follia”.
Non è questo il paragone giusto, mister Ronald Mc Donald. Direi piuttosto: "E' come se oggi andassi dal tuo sindaco, comprassi il terreno dove hai edificato casa tua e buttassi fuori a calci in culo te e tua sorella". Mi sembra più azzeccato, o no?
Fatto sta che la lotta in Patagonia si è fatta più dura e le pallottole di gomma diventano di piombo. Un anno fa, Facundo Jones Huala, leader riconosciuto dei mapuche, viene arrestato con l'accusa non provata di essere un terrorista e comincia un duro sciopero della fame per denunciare al mondo le ingiustizie patite dai popoli indigeni dell'Argentina.
Ma il capitolo più grave accade a Cushamen, dove il primo agosto un attivista di 27 anni nativo di Buenos Aires ma che viveva in una comunità mapuche a El Bolsón, viene fatto sparire dopo essere stato prelevato dalla gendarmeria nazionale durante una manifestazione per la liberazione di Facundo. Si chiama Santiago Maldonado e per l'Argentina torna lo spettro della desaparicion forzada.
La gendarmeria nega ogni responsabilità, ma ci sono video e foto che la provano. Così la magistratura avvia una indagine che per la prima volta tira in causa anche il Gruppo Benetton e indaga sulla gestione da parte dell'esercito e delle forze dell'ordine della questione mapuche e sui diritti violati dei popoli indigeni.
L'opinione pubblica argentina, che pure non si è mai allargata troppo sulle questione indigena, questa volta, è scossa. Televisioni e giornali parlano di un nuovo desaparecido ad opera di gruppi militari. E’ il primo dell’era Macri ed è come se tutte le piastre che ornano i muri di Buenos Aires per commemorare i migliaia di rapiti, torturati ed assassinati, si mettessero a sanguinare. La storia ritorna. E torna a far paura a chi non l'ha mai dimenticata.

Il caso di Santiago Maldonado esce dai blog sui i diritti umani e rimbalza nei giornali e nei media del mondo. Le associazioni più sensibili alla questione organizzano manifestazioni nelle maggiori città europee. Anche a Treviso, anche nella città di Benetton, sabato scorso, 26 agosto, una cinquantina di attiviste e attivisti di Ya Basta Êdî Bese mette in scena una iniziativa con volantinaggio e striscioni davanti al negozio del Gruppo. “Donde esta Santiago Maldonado?” chiedono.
Nessun commento da parte della famiglia Benetton. L’Argentina è lontana. In Italia, il gruppo continua a mostrare il suo volto da “capitalismo illuminato”, ammicca al centro sinistra, delocalizza la produzione e fa contenti gli azionisti tenendo la barra sul fatturato, acquista palazzi storici di Venezia per stuprarli e trasformarli in rivendite di cialtronerie in stile centro commerciale da aeroporto.
Attraverso la sua Fondazione spende e spande beneficenza, finanza lavori sulla pace e premia progetti virtuosi di tutto il mondo per far scrivere i giornali. E paga viaggi ai giornalisti pronti a scrivere su questi progetti, gira soldi all’associazionismo che diventa un mestiere come la fondazione bolzanina dedicata ad Alex Langer e collabora con i Centri Pace dei Comuni come faceva con quello di Venezia.
Nessuno chiede da dove vengano quei soldi.
E se questo a voi non fa schifo…

Le miniere aperte dell'America Latina

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C'era una volta zio Paperone. Con lo zaino in spalla ed un piccone in mano, il futuro fantastiliardario risaliva le innevate distese del Klondike alla ricerca del suo filone d'oro, confidando solo nelle sue forze papere e nel suo Decino portafortuna. Erano i tempi del capitalismo che fu, quando il guadagno realizzato da una concessione mineraria era proporzionato solo all'estratto. Con l'avvento dell'economia finanziaria, l'estrattivismo è entrato in borsa rivelandosi la più potente benzina per le speculazioni finanziarie. Le corporation minerarie oggi, sono tutte quotate nei mercati finanziari e il valore delle loro azioni non dipende da quanto effettivamente estratto dalle loro miniere ma da complessi calcoli speculativi su ricavi futuri che consentono ai loro investitori il perverso gioco di fare "soldi dai soldi". E' un gioco di scatole cinesi globale, dove gli Stati nazionali (e pure i loro governi) sono tenuti ai margini. Quando una legge nazionale pone restrizioni alle speculazioni, il capitale si sposta semplicemente su un'altra borsa. Proprio come è accaduto per il Canada, negli ultimi anni del secolo scorso, quando gli Usa imposero una serie di limiti speculativi sulle attività minerarie e le corporation risposero trasferendo le loro sedi legali a Toronto e continuando, come prima, ad acquistare concessioni speculative in tutto il mondo. Una indagine pubblicata su Le Monde Diplomatique ha dimostrato che, oggi, oltre tre quarti delle multinazionali minerarie del mondo ha sede legale in Canada, e il 60 per cento di queste fa riferimento alla borsa di Toronto, la Toronto Stock Exchange. "Il Canada si presenta come attento alle questioni ambientali a casa propria - scrive Le Monde - salvo poi offrire comodo approdo alle company che non esitano a perpetrare abusi, quando non crimini".
Le bolle economiche create dalla speculazione finanziaria hanno preso il posto delle pepite d'oro faticosamente raccolte nelle gelate sponde dello Yukon. Un capitalista old style come il buon Paperon De Paperoni, avrebbe presi tutti a picconate in testa. Questo processo, pur se virtuale, comporta però che, nella realtà, la miniera deve sempre e comunque continuare a produrre, anche quando, secondo i dettami del vecchio capitalismo, il gioco non varrebbe più la candela. Vuoi perché i costi gestionali o ambientali sono eccessivi, vuoi perché i governi impongono troppe tasse. Ecco perché le corporation dell'estrattivismo hanno assoluto bisogno di governi amici che detassino le attività minerarie, smagriscano le carte costituzionali troppo protettive dei beni comuni - è un caso esemplare il Messico dove assistiamo ad un lento ma continuo disgregamento della costituzione nata dalla rivoluzione zapatista -, tacciano sui danni ambientali e, come se non bastasse, siano pronti a soffocare qualsiasi soffio di rivolta tra le popolazioni locali. Governi non soltanto complici. Governi anche malavitosi. La corruzione è un elemento fondamentale per l'ottenimento di concessioni minerarie, considerando che l'attività estrattiva è, per dirla come va detta, assolutamente incompatibile con la tutela dell'ambiente e la difesa dei beni comuni. Pensiamo solo all'acqua che viene avvelenata col mercurio perché riveli eventuali tracce d'oro. Oppure allo spreco che si fa di questa risorsa durante la lavorazione dei metalli, in zone per lo più, dove l'approvvigionamento idrico è sempre critico. Solo otto mesi fa, crollavano due gigantesche dighe minerarie di contenimento a Bento Rodrigues in Brasile. 62 milioni di litri di acqua e fango tossico spazzavano via una intera regione. E' stato uno dei più grandi disastri ambientali della storia dell'umanità, che ha causato danni impossibili da quantificare e un numero di morti ancora da accertare. Eppure, oggi, sono in pochi a ricordarselo, nonostante i fanghi tossici continuino ad inquinare aree sempre più vaste del Paese. Le indagini hanno accertato che la Samarco, per risparmiare sui costi di gestione, aveva tralasciato le più elementari norme di sicurezza e aveva fatto pressione sulle autorità locali per mettere a tacere i rapporti dei tecnici che denunciavano la pericolosità delle dighe. L'aggiramento delle leggi - se non addirittura la loro modifica legale - è una prassi costante e necessaria dell'attività estrattiva, senza la quale non potrebbe prosperare. In alcuni Paesi dell'America latina, in particolare in quelli governati dalla destra, l'illegalità viene tollerata se non addirittura favorita dalle autorità costituite. Nella migliore delle ipotesi, polizia ed amministrazioni preferiscono seguire la politica dello struzzo e fingono di non vedere una quantità enorme di miniere a cielo aperto. Miniere clandestine che non esistono ufficialmente ma che comunque ottengono le loro brave quotazioni alla Toronto Stock Exchange! Un quinto dell'oro estratto dalle montagne del Perù, Paese che con le sue 160 tonnellate annue si pone al quinto posto della classifica mondiale, ha questa provenienza illecita. Al prezzo attuale di mercato, un giro di affari che sfiora il miliardo di euro all'anno. A gestire le vie del commercio illegale sono organizzazioni di stampo mafioso legate a doppio filo con il governo e con le multinazionali estrattive. E' appena il caso di sottolineare che dietro a queste miniere di nobile metallo - anzi, chiamiamolo meglio "oro sucio" (oro sporco), come lo appellano a queste latitudini - si trovano devastazioni ambientali, violenze, sfruttamento minorile, miseria, assassini di oppositori, genocidi di intere comunità indigene, corruzione politica. In altre parole, lo scenario perfetto per lo "sviluppo" di una sana economia neo liberista. Con orgoglio tutto renziano, possiamo affermare che dietro tutto questo c'è anche un po' di Italia. Visitando il Cile, lo scorso ottobre, il nostro premier, Matteo Renzi, ha elogiato il lavoro delle aziende italiane che operano nel continente come la Astaldi che passa dalla realizzazione di ospedali (privati) allo sfruttamento minerario, la Atlantia che sta realizzando le autostrade più contestate del Paese, e l'Enel che fracassa qua e là l'Amazzonia in cerca di petrolio di bassa qualità. "L'Italia qui è rispettata per il carico di civiltà che rappresenta e per la voglia di futuro che esprime" ha dichiarato il premier. "I presidenti delle società mineraria - mi disse tempo fa un giornalista messicano - vanno a pranzo col ministro ed a cena col mafioso. L'unica differenza tra l'estrattivismo e il narcotraffico è che il secondo non è quotato in borsa. Perlomeno direttamente!" Ad opporsi a questo malaffare imperante non sono certo polizie ed eserciti ma i popoli indigeni che si organizzano in autonomie, i contadini che occupano e lavorano le terre saccheggiate dalle multinazionali, i lavoratori che si organizzano in sindacati autonomi, i cittadini che difendono i quartieri, che chiedono istruzione statale, trasporti accessibili e una sanità pubblica e aperta a tutti. Sono loro i veri e gli unici nemici del neo liberismo. Una galassia di movimenti dal basso che, pur con le loro differenze e contraddizioni, sono il vero sangue che scorre nelle vene aperte - per citare Eduardo Galeano - dell'America Latina. La crisi dei Governi di sinistra, dall'ecuadoriano Correa al venezuelano Maduro, va imputata alla loro incapacità di rovesciare il modello socio economico imperante basato su una economia predatoria. Se in molti casi hanno migliorato le condizioni del loro popolo creando scuole e strutture sanitarie prima assenti, dall'altro hanno continuato a marciare sui binari dell'estrattivismo nel vano tentativo di gestire e umanizzare il capitalismo, ma finendo solo per trasformarsi da rivoluzionari a burattini delle corporation minerarie. In poche legislazioni, la loro carica innovativa si è esaurita, schiacciata dal peso di una economia che si nutre di disastri e di povertà, e perdendo credibilità di fronte ai loro elettori. Si spiega così la lenta ma decisa marcia verso l'autoritarismo in cui si sono incamminate o si stanno incamminando tutte le democrazie dell'America Latina. Il nuovo fascismo che avanza non veste la logora divisa delle vecchie Giunte Militari ma non è per questo meno reazionario e sanguinoso. Per imporre il suo potere si fa scudo della stessa democrazia. Il controllo dei giornali e dei media assieme all'imposizione di una giustizia sfacciatamente politica (vedi il caso della presidente brasiliana Dilma Rousseff) sono le armi con le quali i nuovi caudillos fanno piazza pulita degli oppositori, presentandosi poi alle folle come dei politici innovatori, telegenicamente trasgressivi, capaci di imbonire col sorriso sulle labbra fiabe su fiabe, mentendo smaccatamente, smerciando interessi privati come operazioni di pubblica utilità. Una democrazia recitativa che, a ben vedere, siamo stati noi italiani a lanciare nel mondo sulle ali del berlusconismo. Uno stile di cui l'argentino Mauricio Macri è un indiscusso maestro, considerando che lo stesso giorno in cui è uscita la notizia che lui e tutto il suo entourage erano implicati nello scandalo dei Panama Papers, è apparso in tutte le televisioni del Paese per dichiarare: "Questo governo combatterà la corruzione". Il Sudamerica - e con lui tutta la terra - è sull'orlo di un baratro che, va ricordato, non è solo politico o sociale. Non rischiamo solo un semplice ritorno del fascismo. Stavolta, in gioco c'è la stessa sopravvivenza della specie umana. L'economia estrattiva è la causa principale dei cambiamenti climatici e non ci sono formule per convertire in green le speculazioni finanziarie cui fa da motore. Il fascismo poi, è merda solo in senso figurato e, di per sé, non è materiale eco compatibile. Se vogliamo che la terra di domani sia ancora abitabile dall'uomo, non possiamo più cedergli spazio. L'Altro Mondo Possibile, per cui si battono i movimenti latinoamericani, dovrà in primo luogo slegarsi da questa economia speculativa che si nutre di disastri e di guerre. Non ci sono riusciti i governi di sinistra perché questo è il programma di una rivoluzione e non di un governo. E non sono mai i governi che fanno le rivoluzioni. Sono i popoli.

Messico - Continuano le mobilitazioni contro la Riforma Educativa

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Dieci anni dopo la battaglia di Oaxaca, la rivolta dei maestri torna ad infiammare le strade del Messico.
Ad un Governo che risponde con sanguinose cariche militari e minaccia licenziamenti in massa, los Trabajadores de la Educación rilanciano la mobilitazione e da oltre un mese continuano a bloccare strade, presidiare piazze ed occupare istituzioni pubbliche nei municipi del Chiapas, del Michoacán, del Guerrero, fino allo stesso Stato di Oaxaca. Più di 24 mila nel Chiapas, 80mila nella sola Oaxaca, secondo fonti sindacali, i maestri che non hanno esitato ad alzare barricate, letteralmente, contro la riforma della scuola varata dal governo neoliberale del presidente Enrique Peña Nieto.
A scatenare la protesta è stata l’istituzione di un esame obbligatorio valutativo per tutti i maestri, compresi coloro che sono già in attività. Esame che, col pretesto di valutare le competenze educative del candidato, altro non è che uno efficace sbarramento per allontanare dall’insegnamento quanti sono sgraditi al regime. In particolare, a pagare le spese della riforma, sarebbero los maestros delle normali rurali come la ben nota scuola di Ayotzinapa.
Più in generale, la Riforma Educativa fortemente sostenuta dal Governo Nieto, altro non è che una radicale pulizia con il detersivo del neo liberalismo delle ultime resistenti macchie di scuola pubblica nel Messico.
Quella stessa scuola che era nata sotto la spinta della rivoluzione del 1910 e sostenuta da Emiliano Zapata con l’obiettivo di alfabetizzare i popoli originari e le classi più povere dalla popolazione.

Scuole immediatamente attaccate da latifondisti (“covi di guerriglieri”, le hanno definite) e dall’alta gerarchia cattolica (“escuelas del diablo”) ma strenuamente difese dalla popolazione che vedeva nei loro “maestros” non solo dei semplici maestri elementari ma degli autentici avvocati dei diritti, donne e uomini capaci di insegnare ai loro figli che l’unica cosa alla quale non si possa mai rinunciare è la dignità. Nelle scuole popolari, come quella di Ayotzinapa, i campesinos indigeni imparano che quella terra che lavorano è la loro terra, un bene che non si vende e non si compra. Una terra che va difesa con tutti i mezzi necessari tanto dai narcos quanto dal mal gobierno. Le due facce, neppure contrapposte, dello stesso feroce sistema neoliberista che sta sbranando il Messico e il Sudamerica. Non è un caso che, nel solo Stato del Guerrero, dei 17 civili uccisi dai narcos nel 2014, nessuno era un poliziotto o un politico, ma 15 di loro erano studenti o maestri delle scuole popolari. Dei 33 desaparecidos, 28 frequentavano, o avevano frequentato, le rurali. Sono loro, i maestri delle scuole popolari e i loro studenti, il cuore, l’anima ed il sangue dei movimenti di resistenza popolare al neo capitalismo in Messico. Questo è il motivo per il quale la mobilitazione dei maestros delle scuole pubbliche suscita una tale eco nel Paese centroamericano e riesce sempre a trascinare nella protesta interi strati di popolazione, in particolare di origine indigena.

Proprio come successe ad Oaxaca nel giugno del 2006, quando l’intera città e i paesi limitrofi cominciarono una occupazione ad oltranza e senza bandiere di partito, a sostegno dei maestros e, sopratutto, di quanto questi rappresentavano. Una occupazione comunitaria che si concluse nel sangue dopo quattro mesi di assedio e di durissimi scontri con polizia, esercito e squadracce di paramilitari che lasciarono sulla strada, assassinati, quattro compagni, tra i quali un giornalista di IndyMedia, Brad Will. Oggi, dieci anni dopo la caduta della Comuna, lo zocalo - la piazza principale di Oaxaca - è ancora occupata dai maestros.
Chi pensava che della rabbia di dieci anni fa fossero rimasti solo pochi murales che turisti frettolosi fotografavano senza sapere cosa raccontavano, si sbagliava di grosso.

Lo strano caso di Nayef Zayed

justice-for-omarVive da oltre vent'anni in Bulgaria, dove ha moglie, figli e lavoro. Eppure da dicembre non può uscire dall'ambasciata palestinese a Sofia, pena l'estradizione in Israele. Con la complicità del governo bulgaro e della debolezza dell'Autorità Palestinese

Non è solo la libertà di Omar Nayef Zayed, la posta in gioco a Sofia, ma quella di tutti i rifugiati politici palestinesi in Europa. “Partigiano e combattente” per i sostenitori della causa palestinese, “terrorista e criminale” per l’esercito e il governo israeliano, dal 17 dicembre scorso, Zayed vive assediato nei locali dell’ambasciata palestinese della capitale bulgara. Due giorni prima, il Governo sionista aveva inoltrato una ufficiale richiesta di estradizione ma, poco prima dell’arresto, Zayed era riuscito ad involarsi ed a raggiungere la sua ambasciata.
Oggi, dopo quasi due mesi, Zayed vive ancora assediato nei locali di quella villetta a ridosso della zona universitaria di Sofia, che dal punto di vista del diritto internazionale sono territorio palestinese inviolabile.
Assediato, abbiamo scritto, non soltanto in quanto Zayed non può mettere il naso fuori della porta senza venire ammanettato ed immediatamente imbarcato per Tel Aviv, ma anche perché, per tutto questo tempo, la polizia bulgara non ha consentito l’accesso a nessun avvocato ed a nessun portavoce delle varie associazioni europee che si sono spese a favore della sua causa.
Lo stesso non si può dire per le pressioni esercitate dal governo israeliano tanto sulla Bulgaria, quanto sull’Autorità Palestinese, la cui indipendenza da Israele, come sappiamo, è poco più che formale. “Zayed è una bandiera della Palestina” ha proclamato l’ambasciatore a Sofia, Ahmad Madbouh, ma ha subito aggiunto che, purtroppo, le risoluzioni internazionali vanno rispettate e ha dato alla “bandiera” vari ultimatum – tutti disattesi – perché abbandoni i locali della sua ambasciata. Di diverso avviso il Fronte popolare per la liberazione della Palestina che ha diffidato l’ambasciatore dal mettere alla porta Zayed, ricordandogli che, se cadesse nella mani di Israele, ad attendere l’ex combattente ci sarebbe un futuro di prigionia dura, isolamento e torture.

Ma chi è Omar Nayef Zayed? Esattamente come ha detto l’ambasciatore, Zayed è niente di più e niente di meno che una “bandiera della Palestina”. Un modello al quale molti giovani palestinesi, in particolare quelli legati a movimenti di sinistra e lontani da derive integraliste religiose, si sono ispirati per le loro lotte contro l’occupazione militare israeliana. Nato a Jenin, nel cuore del West Bank, 52 anni fa in una famiglia di combattenti (tanto il padre, quanto la madre che i suoi otto fratelli hanno conosciuto le galere israeliane), nell’86 ha fatto parte di un commando di tre persone che ha ucciso un colono che si era macchiato di atrocità nei confronti dei palestinesi.
Una “azione di guerra” per i palestinesi, un “omicidio a sangue freddo” per i sionisti. Arrestato e condannato all’ergastolo da un tribunale militare assieme ai suoi due compagni, Zayed comincia nel ’94 uno sciopero della fame che lo porta quasi alla tomba. Ricoverato in ospedale, riuscirà a fuggire grazie all’aiuto di altri combattenti palestinesi e dopo aver peregrinato per vari Paesi arabi, riparerà in Bulgaria, dove ha ottenuto lo status di rifugiato politico ed un permesso di soggiorno a vita. Da oltre 20 anni, Zayed vive a Sofia con un lavoro, una moglie e due figli, entrambi con la cittadinanza bulgara. Una vita tranquilla con una famiglia che sarebbe stata applaudita pure al Family Day, se non fosse arrivata la richiesta di estradizione da parte della giustizia israeliana che non gli ha mai perdonato, più che l’attentato, la rocambolesca evasione. I suoi due compagni infatti, sono stati liberati tre anni fa, in virtù di uno scambio di prigionieri con Hamas.
Come abbiamo sottolineato in apertura, non è solo la vita di Omar Zayed, la posta in gioco. In un momento in cui si alza la tensione tra l’Europa e il governo di Netanyahu sull’occupazione e sulla colonizzazione dei Territori, il caso Zayed rischia di venir interpretato come una necessaria contropartita. Già il “via libera” all’estradizione può essere letto sotto questa luce di compensazione. Sa da un lato, l’Europa non può accettare passivamente l’aperta violazione di trattati come quello di Oslo, ai quali essa stessa ha fatto da testimone, dall’altro non vuole rompere con il Governo sionista, seppur colpevole di violare i diritti umani ed internazionali. Israele continua pur sempre, nell’ottica dell’attuale politica europea, ad essere la principale e più affidabile sponda di dialogo dell’altra parte del Mediterraneo. La “bandiera di Palestina” rischia di dover pagare il prezzo di tutto questo. E con lui, tanti altri combattenti palestinesi che nei Paesi europei hanno trovato asilo sotto il protettivo status di rifugiati politici. Il caso Zayed insomma, può rivelarsi un precedente pericoloso. Se la “bandiera” può essere arrestata ed estradata, allora tutti sono in pericolo.

Economia vs umanità. La catastrofe di Bento Rodriguez

image-919319-galleryV9-sknt-919319Le catastrofi non sono mai naturali. Meno che meno, appare naturale quanto accaduto al villaggio di Bento Rodrigues, che giovedì 5 novembre è stato letteralmente spazzato dal mondo da uno tsunami di acqua, fango e rifiuti tossici, causato dal crollo di una diga mineraria.
Siamo nello stato brasiliano di Minas Gerais, 300 chilometri a nord di Rio de Janeiro. Una regione in cui la tradizionale economia agricola basata sulla soia, sul caffè, sulla frutta e sulla canna da zucchero è stata via via rimpiazzata da uno “sviluppo” devastante costruito sullo sfruttamento della manodopera e delle risorse minerarie presenti, come il ferro e l’alluminio. Nell’ultimo ventennio, la regione ha visto la nascita di industrie di siderurgia, trasformazione dei minerali, elettronica e automobili (anche la Fiat, così come la Iveco e la Mercedes Benz hanno trasferito qui alcune fabbriche) così che lo Stato, secondo uno studio datato 2015 del Ministero del Lavoro brasiliano (fonte: il Sole24Ore) risulta il secondo, dopo quello di San Paolo, nella classifica 2015 delle “opportunità lavorative”.
Ciò che lo studio del Ministero non dice, è il prezzo pagato per tutto questo “benessere”. Benessere - va puntualizzato - riservato a pochi, perché a fronte di una occupazione di 161 mila e 103 persone nell’industria e nelle miniere, si è registrato come attestano i contro-dati diffusi dalla lega dei contadini poveri, un aumento esponenziale della povertà nelle aree rurali dove chi non riesce ad arrivare ai sussidi statali (vere e proprie elemosine) non ha altra strada davanti che quella che porta alla favella per vivere degli scarti della grande metropoli. Ben lontano dall’attuare la promessa riforma agraria, il Pt (partito dei lavoratori - quello di “sinistra”) che governa anche nello Stato di Minas Gerais, ha scatenato, come si legge in una nota della lega dei contadini poveri, “una politica di governo delle campagne è fatta di repressione: si susseguono come mai violenti sfratti, arresti, torture e uccisioni di dirigenti contadini, ‘quilombolas’ e indigeni a livello nazionale”.

Una “guerra per la terra” tra i contadini che vorrebbero trarne sussistenza e i latifondisti che preferiscono darla in gestione alle grandi compagnie minerarie. Miseria, fame, massacri di indigeni, sparizione della foresta pluviale, devastazioni ambientali, rapine di beni comuni, inquinamenti delle acque, diritti violati, desaparecidos… eccola qua l’altra faccia della medaglia delle “opportunità lavorative” legate allo sfruttamento minerario.
La catastrofe di Bento Rodrigues non ha proprio niente di naturale. Il crollo della diga di proprietà della compagnia mineraria Samarco (una joint venture tra la multinazionale brasiliana Vele - compagnia tristemente nota e sulla quale vi rimando a questo articolo di Peacelink perché dovrei scriverci un libro - e l’anglo australiana Bhp Billiton) è soltanto l’ultima battaglia di una guerra globale: quella dell’economia contro ogni forma di vita su questa terra.
Non è neppure un caso che a travolgere il villaggio di 600 anime, causando 11 morti accertati e una dozzina di dispersi, non sia stata soltanto l’acqua o il fango che hanno travolto le pareti della diga, costruita al solo scopo di contenere le acqua reflue della vicina miniera di ferro. Tra i 500 milioni di metri cubi di liquami (la cui eccessiva pressione sulle pareti della diga era stata segnalata dai tecnici ma ignorata dai dirigenti aziendali) sono stati trovati quintali di rifiuti tossici che, in spregio alla legislazione di tutela ambientale e di smaltimento dei residui di lavorazione, la Samarco travasava nel “suo” lago. 
Una catastrofe nella catastrofe. Le acque inquinate (purtroppo non si sa ancora quanto e come, considerato che l’azienda continua a negare anche l’evidenza), oltre a compromettere la fertilità dei terreni agricoli sottostanti, stanno confluendo nel grande rio Doce che è una dei principali rifornitori d’acqua della Regione, dalla foresta amazzonica alla sponda atlantica. Alcuni siti giornalistici brasiliani, parlano già di cadaveri di animali avvelenati, trovati sulla sponde del fiume. Ma possiamo stare tranquilli che le compagnia che privatizzano dell’acqua, aumenteranno il loro fatturato grazie a questo “incidente”. 
Frattanto, nel momento in cui scrivo, nel sito della Samarco non trovo una parola su quanto accaduto a Bento Rodrigues. In compenso, ci sono un bel po’ di articoli che spiegano quanto investono nel loro Plano de Recuperação Ambiental e nelle loro Ações (azioni) Humanitárias.
Dei veri benefattori dell’umanità.

Terra e libertà. Los Panchos di Città del Messico

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Dallo Zocalo, la grande piazza dove si affaccia il palazzo del Governo e dove sventola la bandiera nazionale più grande del mondo, dovete mettere in conto almeno un'ora di metropolitana, con gli immancabili venditori di caramelle e suonatori di chitarra che salgono e scendono ad ogni fermata. Arrivati alla "delegazione" di Acapatzingo, cercare la piazzetta dei “collettivi”, un miscuglio tutto sudamericano tra bus e taxi, che effettuano un percorso più o meno stabilito e che partono quando l'autista decide che è ora di partire. Vedete di farvi scarrozzare pressappoco dalle parti della colonia Polvorilla. Dopo una mezz’oretta, quando non ne potrete più di sobbalzare su “carreteras” che definire disastrate è fargli un complimento, scendete. Anche se tutto è andato bene, sappiate che non siete ancora arrivati. L’ultimo passo è quello di affidarvi a uno degli sconclusionati taxi locali. Vedete di inventarvi qualche balla con l’autista, che certo sarà curioso di sapere che caspita cerca un "gringo" da quelle parti. Ma si sa che “los grigos”, sotto la latitudine di Tucson, sono “todos locos” per definizione!



Alla fine dei conti, avrete alle spalle un viaggio di perlomeno tre ore ed avrete difficoltà a pensare che non avete raggiunto neppure la prima periferia di quell'immensa, inimmaginabile megalopoli che è Mexico City. Una città talmente grande che nessuno sano di mente può anche soltanto pensare di pensare di conoscerla sufficientemente. 
Ed è proprio una Ciudad de México che non ti aspetti, quella che ti si apre dietro al portone con due grandi stelle rosse. Ma, se sei arrivato sino a qua, vuol dire che non cercavi solo i tramonti delle spiagge di Acapulco o la musica dei mariachi. Hai appena messo piede nel “barrio” dei “panchos” del Frente Popular Francisco Villa Indipendiente. 
L’effetto è pressapoco quello dell’armadio fatato di Narnia, che ti trasporta dal tuo reale ad uno fantastico. Te ne accorgi subito e non solo dalle case, che qui dentro sono tanto curate e colorate quanto fuori sono fatiscenti e grigie. Oppure dalla cura con la quale sono tenuti i viali con tanto di fiori e piante ornamentali. Te ne accorgi soprattutto dall’orgogliosa aria di “rebeldia” che qui dentro si respira.

Ad accogliere la delegazione di Ya Basta è Gherardo, uno dei portavoce della “junta”  di governo che ci racconta la storia della colonia intanto che giriamo tra i grandi spazi comuni del quartiere attrezzati a campi gioco, giardini, biblioteche, scuole, sale di riunione, stanze con accesso alla rete internet. 
Tutto quanto vediamo, spiega Gherardo, è il frutto di un ventennio di lotte. E quando in Messico dicono “lotta” intendono proprio “lotta”. Non so se mi sono spiegato… Ancora oggi, che il “barrio” ha avuto un qualche riconoscimento ufficiale - tanto è vero che sono allacciati alla rete elettrica (con bolletta autoridotta però) e idrica (autoridotta anche questa bolletta, ovviamente) - i tentativi di sgombero non sono ancora finiti. Ed è per questo che il portone di accesso al quartiere è rinforzato e continuamente presidiato. 

Tutto è cominciato negli anni ’80 con una cava a cielo aperto che, come sempre succede in Messico (ma anche in tutto il resto del mondo), ha devastato l’ambiente, inquinato acqua e aria, per portare in cambio tanti soldi per il padrone e tanta miseria anche per coloro che ci erano pure andati a lavorare. Quello che resta della cava è ancora visibile dalla cime della collinetta dove sorge il “barrio”. Se ne sta là come un monumento alla stupidità e al servilismo umano. Tutta la zona attorno apparteneva al padrone della cava. Uomini e donne compresi. Questi è un tizio che, grazie ai proventi della miniera, oggi ha smesso l’attività mineraria per dedicarsi ad un commercio molto più fruttuoso. il narcotraffico. La prima occupazione che ai panchos (li chiamano così perché si ispirano a Pancho Villa) è costata botte e sangue è avvenuta proprio sopra una discarica (abusiva) della cava. 

Qui c’è da spiegare che in Messico, esattamente al contrario di quanto avviene in Europa, l’occupazione della terra - Villa e Zapata avranno pur imbracciato il fucile per qualcosa! - è più o meno tollerata mentre le occupazione delle case vengono immediatamente sgomberate anche con l’aiuto dell’esercito. 

“All’inizio eravamo poche famiglie - spiega Gherardo -. Non avevamo una terra o soldi per acquistarla. Così ci siamo sistemati qui, Ci siamo costituiti in una cooperativa per avere accesso a dei mutui agevolati e abbiamo cominciato a costruire case per tutti. Tutte uguali nella metratura, tutte diverse negli spazi interni. Abbiamo tenuto duro e, un po’ alla volta, tante altre famiglie che vivevano nella baraccopoli si sono aggiunte a noi. Abbiamo affrontato tante battaglie, che non sono ancora finite, per ottenere ad un prezzo accessibile l’energia elettrica e altri servizi. Oggi qui vivono 596 famiglie che significa tra le 2500 e le 3000 persone. Molti lavorano nelle nostre cooperative, altri fuori del quartiere. Nessuno però soffre la fame, i bambini crescono sani e vanno a scuola. Non è così negli altri quartieri poveri di Città del Messico”. 
Già. I bambini. Ce ne sono a centinaia che giocano e saltellano negli spazi comuni (qui la gente vive con le porte aperte e più fuori che dentro le case). Cosa farete quando cresceranno e anche loro avranno bisogno di una casa? 
“Che domande? Occuperemo altre terre naturalmente, e tireremo su altre case anche per loro!” 

Proprio vero: Villa e Zapata avranno pur imbracciato il fucile per qualcosa!

¿Dónde están todos?


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Il 26 settembre 2014 a Iguala, nello Stato del Guerrero, Messico, 43 studenti della scuola rurale di Ayotzinapa vengono sequestrati da uomini incappucciati. Secondo il Governo, sono stati fermati dalla polizia municipale e poi consegnati ai narcotrafficanti che li hanno massacrati. Ma i corpi non si trovano ancora e la versione ufficiale contrasta con la realtà dei fatti. Padri e madri dei ragazzi desaparecidos domandano giustizia e chiedono: "Dove sono tutti?"

Caracol di Oventic, Stato del Chiapas, 31 dicembre 2014

Freddo, pioggia e fango. Sul grande palco nel cuore del villaggio controllato dall'Esercito Zapatista di Liberazione Nazionale, il sub comandante insorgente Moises dà il benvenuto ai familiari delle vittime di Ayotzinapa. Sono i padri, le madri e i fratelli dei 43 studenti indigeni rapiti il 26 settembre scorso. Non portano né paliacate né cappuccio nero. Sul loro viso si legge solo sofferenza. Salgono lentamente sul palco, reggendo ciascuno una grande foto di un ragazzino scomparso. Dai guerriglieri e dalle guerrigliere zapatiste si alza un urlo di dolore: "Vivos los llevaron, vivos los queremos". Vivi li hanno portati via, vivi li vogliamo. Manca un'ora allo scoccare della mezzanotte. Prende la parola il padre di Manuel. Aveva 15 anni, faceva il contadino e studiava perché voleva diventare un maestro.

Novantasei giorni prima
Tutte le ricostruzioni di quanto accaduto quel venerdì 26 settembre, ad Iguala, cittadina di 120mila abitanti dello Stato del Guerrero, sono lacunose o addirittura fuorvianti. Basti pensare che il primo comunicato della polizia municipale recitava: "Non è accaduto niente di significativo". Solo sei morti, una trentina di feriti di cui due tuttora in gravissime condizioni e 43 desaparecidos. Ecco il "niente di significativo"!
Ma per comprendere l'accaduto, è indispensabile capire cosa sono le scuole normali rurali in Messico.



Le scuole del diavolo
Nate sull'onda della rivoluzione dei primi del '900, quella di Francisco Villa ed Emiliano Zapata, le normali rurali sono tuttora il solo orizzonte scolastico che si apre ai figli dei campesinos e va dato loro il merito di aver alfabetizzato intere generazioni di indigeni. O il demerito, se vogliamo vederla dal punto di vista dei latifondisti e della gerarchia cattolica che hanno sempre visto con sospetto l'avvicinarsi degli indigeni ai libri, sino a definire le rurali: "las escuelas del diablo". Pur se previste nell'articolo 3 della Costituzione, negli ultimi vent'anni le normali sono state penalizzate e criminalizzate dal Governo. Lo stesso presidente Enrique Peña Nieto le ha definite "covi di guerriglieri" e "nidi di bolscevichi". E, va detto, che dal suo punto di vista ci ha pure ragione, il presidente! Dalle rurali escono i "maestri" che insegnano ai campesinos indigeni che quella terra che lavorano è la loro terra, un bene che non si vende e non si compra. Un diritto che va difeso tanto dai narcos quanto dal mal gobierno che, su quella terra che dà vita e dignità a tanta gente, hanno le stesse identiche mire: venderla (regalarla) ai latifondisti. I primi ci vogliono far droga, i secondi cassa (c'è la crisi, no?)
Di oltre cento che erano, oggi di rurali ne sopravvivono solo 17. Studenti, maestri e comunità indigena tengono duro. Ma il prezzo che queste scuole pagano è pesante. Nel solo Stato del Guerrero, dei 17 civili uccisi dai
narcos nel 2014, 15 erano normalisti. Dei 33 desaparecidos, 28 frequentavano, o avevano frequentato, le rurali.

Quel 26 settembre ad Iguala
Cosa è successo quel giorno ad Iguala? Quello che è sicuro è che un centinaio di ragazzi indigeni provenienti dalla scuola normale rurale "Raúl Isidro Burgos" di Ayotzinapa, si è recato nel capoluogo, a 120 chilometri di distanza, per "sequestrare" tre autobus di una compagnia privata con l'intento di recarsi a Città Del Messico per partecipare all'annuale manifestazione in ricordo della strage di piazza Tlatelolco, dove il 2 ottobre del 1968 oltre 300 studenti furono massacrati dalla polizia.
Va detto che il "sequestro" degli autobus per partecipare alla manifestazione studentesca del 3 ottobre, in Messico. è una "tradizione" che si ripete ogni anno. Tanto è vero che in giorno precedente gli autobus sono lasciati con la porta aperta per evitare scassi, senza benzina, con l'assicurazione in regola e, alla fine, vengono sempre restituiti in buone condizioni. I gestori inoltre, quasi mai sporgono denuncia.
Ma stavolta qualcosa è andato storto.

Signor sindaco e signora
Quel venerdì a Iguala era un giorno speciale. Il signor sindaco uscente, José Luis Abarca, presentava il candidato del suo partito, il Prd (centrosinistra), alle prossime elezioni: sua moglie, María de los Ángeles Pineda. L'arrivo degli studenti fu visto come una provocazione e, secondo quanto affermano la Procura e il Governo, fu proprio lui a scatenare la polizia municipale contro i ragazzi. Il primo scontro avviene nel pomeriggio. I poliziotti intimano ai ragazzi di consegnarsi. Gli studenti rispondono con le pietre e la polizia spara, uccide un ragazzo e ne ferisce altri dieci. Verso sera, il secondo scontro. Un ragazzo sputa in faccia ad un poliziotto che gli intima di allontanarsi. Viene arrestato e portato via. Il giorno dopo il suo cadavere sarà ritrovato a 200 metri di distanza con la faccia scarnificata e senza occhi. Nel tentativo di farlo rilasciare, i giovani riprendono a lanciare pietre ma arrivano squadroni di incappucciati che sparano a tutto ciò che si muove. Uccidono un tassista e una signora di passaggio. Sparano su un autobus con i colori simili a quelli degli studenti. Dentro c'è una squadra di una scuola locale e ammazzano un ragazzino. Uccidono altri 2 studenti della rurale e ne feriscono gravemente una ventina. Nel parapiglia, gli incappucciati e i poliziotti sequestrano gli occupanti dell'ultimo autobus, dove c'erano i ragazzi più giovani, quelli dei primi anni.
Sono questi i 43
desaparecidos.

Arrestato il sindaco. Anzi, no. Anzi, sì.
Il giorno dopo, il sindaco di Iguala cerca di sdrammatizzare l'accaduto. "Una scaramuccia con alcuni facinorosi", ed offre di tasca sua un risarcimento di 60mila pesos (3mila euro) ai familiari delle vittime che i parenti dei ragazzi della rurale di Ayotzinapa rifiutano sdegnosamente, pur se una cifra del genere, per un campesino, non la mette assieme in tutta la vita.
Grazie ai giornalisti locali che erano stati convocati in conferenza proprio durante il secondo attacco, la storia fa il giro del mondo. Il Governo e la Procura Federale sono costretti ad intervenire, arrestando 22 poliziotti municipali. La versione che viene data è che questi siano in combutta con i
narcos e che siano stati questi ultimi a massacrare i giovani, dopo che i poliziotti glieli hanno consegnati. Nei giorni seguenti viene tirato dentro anche il primo cittadino che fa in tempo a scappare con la consorte.
Verranno arrestati due volte. La prima volta a Veracruz, la seconda in un quartiere di Città del Messico.
Luis Hernàndez Navarro, direttore de La Jurnada, uno dei principali quotidiani messicani che mi ha gentilmente ricevuto in redazione, mi spiega come funziona la faccenda. "Il doppio arresto è, purtroppo, una pratica consolidata nel mio Paese. La Procura prima ha prima dato notizia dell'arresto del sindaco a Veracruz, a casa di un noto trafficante di droga che è padrone di mezza città. Due giorni dopo ha smentito tutto. Altri due giorni dopo e José Abarca è miracolosamente arrestato un'altra volte. Dove? In un quartiere del Distretto Federale che è una roccaforte storica del Prd. In modo da non turbare la tranquillità del noto ed intoccabile trafficante, ma lasciando intendere che il fuggitivo è stato protetto dal suo partito. Insomma, il Pri al Governo non ha perso l'occasione di giocare la partita provando ad addossare tutte le colpe al partito rivale, accusandolo di essere dalla parte dei
narcos".

Ma chi sono i narcos?
La tesi che sposano la Procura e il Governo Federale è che la strage sia da imputare esclusivamente ai corrotti politici del partito di opposizione che hanno consegnato i giovani ai narcos.
Se ne esce pubblicamente pure il presidente Enrique Peña Nieto che in una conferenza stampa si alza in piedi alzando il pugno chiuso ed urla: "Todos somos Ayotzinapa!"
Come? Il presidente Nieto? Proprio
quel Nieto? Già proprio quello. L'ex governatore mandante della repressione di Atenco, quando il 5 maggio 2006 la polizia ammazzò una persona, ne arrestò oltre 400 persone (di cui 17 sono tutt'ora desaparecidos). Quel Nieto che ordinò di stuprare le 42 donne arrestate per "dare loro una significativa punizione". Quel Nieto riconosciuto colpevole, graziato e poi eletto presidente dello Stato.
Ma davvero la colpa è tutta del corrotto sindaco Abarca quanto accaduto a Iguala?
Gli studenti rurali, tanti testimoni neutrali, gli stessi giornalisti hanno raccontato che agli scontri hanno partecipato anche federali e militari. "Il punto è proprio questo - sottolinea il direttore de La Journada-. Sono stati arrestati, sino ad ora, solo poliziotti municipali ma non erano loro a sparare ai ragazzi, quella notte".
Uomini e mezzi dell'esercito sono intervenuti agli scontri. Anche le telecamere di sicurezza lo hanno dimostrato. Il Governo Federale e l'esercito non possono dichiararsi innocente.
"Con questo massacro il Messico si è giocato quella poca credibilità internazionale che gli rimaneva - conclude Hernàndez -. Nieto è riuscito a farsi scaricare anche da alleati storici come il Vaticano e la Casa Bianca, che è anche la paladina di quell'antiproibizionismo che versa ogni anno miliardi di dollari assassini nelle tasche dei
narcos. Mi domando allora, se davvero il Governo Federale non sapeva niente e non sta coprendo nessuno, perché pagare un costo politico così elevato? Mi chiedo anche se sia un caso che non ci sia una linea investigativa nei confronti dell'esercito che certo, quella notte, non è stato a guardare. La caserma di Iguala è notoriamente legata al cartello narcos dei Cavalieri Templari. Insomma, il Governo dice che sono stati i narcos. Ma chi sono i narcos in Messico, mi domando?"

¿Dónde están todos?
Intanto i corpi dei 43 ragazzi non si trovano da nessuna parte. La procura federale se ne esce una settimana sì e una no con una risposta differente. Senza peraltro spiegare come sia arrivata a questa ipotesi. "Sono stati gettati in un lago profondo". Ma non ci sono laghi così profondi nelle vicinanze da non poterci fare una immersione. "Sono stati bruciati nella discarica di Iguala". Ma aveva piovuto per tutta la settimana. Carbonizzare 43 corpi senza che resti traccia identificabile col Dna comporta un grande falò che dovrebbe ardere per almeno una giornata. Nessuno degli abitanti delle case che danno sulla discarica ha visto qualcosa di simile.
I militari consegnano ad una associazione di medici argentini che seguono il caso come periti di parte dei familiari, un osso di un dito e un dente. Viene identificato come appartenente ad uno studente. Ma i soldati si rifiutano di dire - per motivi di sicurezza nazionale! - dove lo hanno trovato. Intanto, vengono alla luce decine di fosse comuni. Ci sono centinaia di corpi ma nessuno, sino ad ora, appartiene agli studenti di Ayotzinapa.
A metà dicembre la Procura decide di aver fatto abbastanza per degli indigeni. Sospende le ricerche per il periodo della vacanze natalizie con la scusa di attendere gli esiti degli esami sui corpi già trovati nelle fosse. In realtà, vuole lasciar scorrere un po' d'acqua sotto i ponti, sperando che i media parlino d'altro e che i familiari dei
desaparecidos si mettano il cuore in pace, magari accettando la "generosa" riparazione economica offerta dal Governo.
Ma con questa gente qua, hanno fatto male i conti.

Quartiere Meraviglia
San Cristobal de las Casas. Tra le ultime case dell'elegante cittadina del Chiapas e la selva sorge il Quartiere Maravilla. In realtà, è una favella fetente. L'unica "meraviglia" è che la gente riesca a sopravviverci. Eppure, proprio al centro della baraccopoli, troviamo una vasta area ben curata: ci sono scuole, aule studio con computer, case per studenti e maestri, biblioteche, sale riunioni, collegamenti alla rete, serre didattiche. Pure le aiuole sono fiorite. Tutto è pulito e colorato. Le targhe davanti alle aule ricordano Ivan Illich, Immanuel Wallerstein, Raimon Panikkar... Siamo all'Università della Terra, dove i ragazzi dei villaggi zapatisti vengono a studiare dopo le elementari. Qui, dove si sta svolgendo la parte finale del Festival della Rebeldia, incontro il giovane rurale Omar Garcia. Quella notte a Iguala, si è salvato solo perché ha cercato di portare in ospedale un compagno ferito alla testa da una pallottola e tuttora in coma profondo. "I politici al potere, ed anche quelli all'opposizione, ci vorrebbero rassicurare dicendo: tranquilli, prenderemo i colpevoli e li castigheremo. Non hanno capito che non è questo il vero punto della questione. Noi non ci accontenteremo di veder punita la mano che ha ucciso, e neppure il diretto mandante, fosse pure ad alto livello. Quello che noi chiediamo è la messa in stato d'accusa dell'esercito e del sistema politico stesso. Quello che noi vogliamo è una giustizia vera. Quello che noi pretendiamo è terra e dignità. Quello che per cui siamo pronti a morire ancora è la democrazia".

Feliz año nuevo
Caracol di Oventic. Il papà di Manuel che voleva fare il maestro comincia a parlare. "Siamo indigeni, siamo contadini, siamo poveri. Difendiamo la nostra terra come la nostra vita. Paghiamo un prezzo altissimo alle violenze dei narcos e del Mal Gobierno che vogliono rubarci la terra e la vita. Ma oggi ci hanno inferto un dolore infinito. Dove sono i nostri figli? Sono vivi? Sono morti? Li stanno torturando?"
L'anno nuovo è già arrivato da un pezzo ma nessuno ha voglia di brindare. Dietro il cappuccio nero, gli occhi dei guerriglieri zapatisti si riempiono di lacrime.



Il Burundi si prepara alla pulizia etnica

Pasted Graphic
Il genocidio corre sul fax. Quattro pagine in tutto che portano la data di giovedì 3 aprile 2014. Quattro sintetiche pagine con le quali l’ufficio di rappresentanza dell’Onu di Bujumbura, capitale del Burundi, informa l’assemblea delle Nazioni Unite che il Cndd, il partito al potere nel piccolo Stato centrafricano, ha cominciato a distribuire armi, alcolici e uniformi ai miliziani dell’Imbonerakure.
Una storia che abbiamo già letto. Impossibile non ritornare con la memoria a quel sanguinoso aprile del 94’ quando in Rwanda il Governo distribuì birra e machete ai paramilitari dell’Interahamwe e cominciò il genocidio dei tutsi.
All’epoca, fu il generale dei Caschi Blu Roméo Dallaire che nel suo libro “Ho stretto la mano al diavolo” indicò questa mossa come il punto di non ritorno di quanto accadde poi, a spedire da Kigali un simile fax alle Nazioni Unite. Ieri come oggi, l’avvertimento e caduto nel vuoto e l’assemblea dell’Onu non si neppure degnata di una risposta.


I paralellismi con il genocidio rwandese sono davvero preoccupanti. In Burundi, come già era in Rwanda, la maggioranza hutu al Governo preme per rafforzare il suo potere ai danni della minoranza tutsi. La crisi e una politica economica asservita ai dettami di “sviluppo” imposti della Banca Mondiale che ha privatizzato l’intero Paese, svenduto le risorse e fatto piazza pulita di ogni ammortizzatore sociale, ha gettato la popolazione nella disperazione. Un palcoscenico ideale per dare sfogo all’odio razziale ed individuare nei tutsi la causa di tutti i mali che affliggono il Paese. Esattamente quento sta facendo il presidente Pierre Nkurunziza nell’intento di costringere la Corte Costituzionale a scombinare le carte in tavola e permettergli di ripresentarsi alle elezioni per il terzo mandato consecutivo. Proposta questa, che il Parlamento gli ha bocciato per un solo voto di scarto. L’asseblea degli eletti in cui è costituzionalmente garantita una forte rappresentanza tutsi compresa la carica di vice presidente, è il principale ostacolo che si frappone tra il presidente Nkurunziza e il consolidamente del suo potere politico. Per bypassare il legittimo parlamento, il presidente hutu ha proposto una dozzina di emendamenti alla Costituzione che mirano ad azzerare l’attuale equilbrio tra le due etnie e a consentirgli di non dover abdicare dopo la scadenza del suo secondo mandato, nel 2015. Il “pacchetto” prevede inoltre l’abolizione del diritto per militari e polizia di associarsi in sindacato e di scioperare, uno sbarramento al 5% per la rappresentanza dei partiti in parlamento, e l’istituzione di un insindacabile diritto di veto a disposizione del Capo del Governo (che è sempre Nkurunziza) sull’eleggibilità dei candidati alle elezioni presidenziali.
Un colpo di Stato in piena regola per attuare il quale, Pierre Nkurunziza deve necessariamente soffiare sul fuoco dell’odio interetnico e percorrere la stessa strada che in Rwanda ha portato alla guerra civile e al genocidio.
Secondo quando afferma il sempre ben documentato sito African Voices, dalle montagne del Burundi ha già cominciato a trasmettere Radio Rema Fm diffondendo notizie false sulle responsabilità dei tutsi nella crisi e incitando la popolazione al massacro. Anche questa è una storia già letta nel vicino Rwanda, quando Radio Mille Colline sputava odio su tutto il Paese invitando la gente a “schiacciare con ogni mezzo gli scarafaggi tutsi”. Stando ad una indiscrezione del giornale inglese Guardian, a tirare le file di Radio Rema Fm ci sarebbe lo stasso Georges Reggiu, già conduttore di Radio Mille Colline e condannato a svariati anni di carcere dal tribunale speciale costituitosi per giudicare i responsabili del genocidio rwandese. Grazie ad un accordo tra l’Italia e le Nazioni Unite, Reggiu, che aveva un passaporto belga, era stato estradato in Italia per scontare la sua pena ma fu, immediatamente e misteriosamente, graziato dal nostro presidente Silvio Berlusconi.
Georges Reggiu fu anche uno dei principali teorici del cosidetto “Potere Hutu” che afferma la superiorità della “razza hutu” sui tutsi cosiderati alla stregua di “blatte” da eliminare necessariamente prima di incamminarsi verso gli alti destini cui gli hutu sono destinati per grazie divina. Una ideologia (se possiamo chiamarla così) semplice ed efficace adatta a far presa su persone disperate, violente e alcolizzate come erano gli Interahamwe, “coloro che combattono assieme”, del Rwanda e ora gli Imbonerakure, “coloro che vedono lontano”, del Burundi.
Gli effetti di questo scroscio di violenza sono già palpabili nel piccolo Paese centrafricano. Le poche voci di ambientalisti, giornalisti e pacifisti che invitavano al dialogo e alla difesa dei diritti costituzionali, sono già state fatte zittire. Oltre un migliaio di persone - sia tutsi che hutu - sono state incarcerate. Altri ancora fatti sparire dalle milizie paramilitari. Il clou è stato toccato nell’ultimo 8 marzo, giornata mondiale della donna, quando una pacifica manifestazione nella capitale è stata repressa con brutalità inaudita, stupri e pestaggi compresi, dalle forze dell’ordine al diretto comando del presidente Nkurunziza. In questa occasione sono stati arrestati e già condanati all’ergastolo per “tentata insurrezione” tutti i 71 principali esponenti del Movimento Solidarietà e Democrazia, il primo partito di opposizione.
Lo scoppio di una guerra civile in Burundi rischierebbe inevitabilmente di estendersi ai Paese confinanti, Congo, Uganda e Rwanda per primi.
In Congo, ricordiamolo, sono tuttora stanziati i campi addestramento dei circa 12 mila miliziani dell Fdlr, le cosidette Forze democratiche per la liberazione del Rwanda che costituirono la manodopera per il genocidio perpetuato a colpi dei machete acquistati in saldo dalla repubblica Popolare comunista della Cina del ’94.
Ancora, storie già lette che si ripresentano nell’indifferenza, se non nella complicità, del mondo civile. Neppure un anno fa, nel settembre del 2013, col supporto neppure tanto velato del Governo congolese che sperava di toglierseli dal suo territorio, e della Francia che mirava a riconquistare l’influenza economica perduta dopo la presa del potere di Paul Kagame in Rwanda, i paramilitari dell’Fdlr tentarono inutilmente di invadere il Paese confinante per “finire il buon lavoro cominciato nel ’94”, come disse un loro esponente. L’operazione che in Francia chiamarono “Abacuguzi”, non riuscì per l’intervento di Inghilterra e Usa.
Ancora, come all’epoca del colonialismo, a dettare i tempi di stragi e genocidi sono sempre e comunque le civili potenze occidentali.
Vale la pena, in chiusura del mio articolo, di spendere due parole su tutsi e hutu. Contrariamente a quanto i più credono non si tratta di due diverse etnie. Piuttosto, come spiega l’indimenticabile giornalista Ryszard Kapuściński, si tratta di due caste: i tutsi legati all’allevamento e alla gestione del potere politico, e gli hutu all’agricoltura. Ma gli appartenenti all’una o all’atra casta sono biologicamente indistinguibili gli uni dagli altri. Non si trattava neppure caste chiuse, come quelle indiane. Il re del Paese della Mille Colline aveva il potere, ad esempio regalando una mandria ad un suo fedele vassallo, di elevare un hutu in tutsi. La cattiva sorte o la perdita dei suoi “lunghe corna” trasformava invece un tutsi in hutu. Furono i colonizzatori belgi e in particolare i missionari cristiani a farne due etnie, formalizzando l’appartenenza alla “razza” tutsi o hutu sui documenti. Una mossa pensata per dividere il Paese e governarlo meglio, contando sulla minoranza tutsi per affiancare i “padroni bianchi” sulla gestione del potere politico.
Neppure 50 anni dopo, tutto ciò si tradurrà in genocidio. Una parola che prima che arrivassero i colonizzatori era non solo sconosciuta ma anche intraducibile nelle tante lingue del continente nero.

Diario di viaggio della carovana Brasil Em Movimento

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Come ti pacifico la favela, la storia di Rocinha

Rio de Janeiro
- Per darvi un’idea dell’ostello dove la carovana di Ya Basta ha preso alloggio, potreste pensare ad un quadro di Escher. Uno di quelli con le scale “matte” che si accavallano in tutte le direzioni. Solo, dovete immaginarlo dipinto con tutti i colori di un mercato della frutta! E se la cosa vi sembra un controsenso, non dimenticatevi che siamo in Brasile. L’Art Hostel si trova nel nel mezzo di Rio de Janeiro - ammesso e non concesso che una città come Rio posso avere qualcosa che si possa definire “centro” - nel quartiere di Catete. Per raggiungere Ipanema, prima tappa di questa prima giornata di carovana, dobbiamo prendere la metropolitana e scendere nella Rio sud, superando i quartieri di Botofago e Capocabana. Poi tocca salire su un autobus che si fa strada, chissà come ci riesce? tra stradine traboccanti di bancarelle che vendono frutta, strette tra canyon di eleganti grattacieli. La nostra meta è la favela di Rocinha, la più grande delle 1024 (sì, avete letto bene, mille e ventiquattro) favele di Rio de Janeiro

. Rocinha è anche la più grande del sudamerica. 60 mila abitanti secondo l’ultimo censimento. Ma “censimento” è una parola che in una favela non significa proprio niente perché presuppone una sorta di ordine o di legalità che in una favela proprio non c’è. Una stima più plausibile fatta dalle associazioni che a Rochina ci lavorano, parla di 150, forse 200 mila abitanti. Di sicuro, è un numero in continua crescita. La favela comincia improvvisamente dove cessano i grattacieli di Ipanema. Mi aspettavo una sorta di “zona franca”. Ed invece il taglio è netto. Di qua la ricchezza e di là la miseria.
Nel cuore di Rochina ci attende Barbara Olivi. Una volta, Barbara, aveva un’agenzia immobiliare a Milano. Poi, una ventina di anni fa, ha venduto tutto, ha sposato un brasiliano e si è trasferita qui per portare avanti una serie di progetti rivolti in particolare ai minori. Se glielo chiedete, l’unico rimpianto che ha è di non essere partita prima. E’ lei che ci racconta la storia di questa favela, una sorta di “discarica degli indesiderati”. I primi a costruirci la casa sono stati proprio gli italiani. Anarchici, per lo più, che nei primi anni del ‘900, varcavano l’oceano da perseguitati politici e che quando guardavano l’oceano dalle grandi onde che si frangono sui Dois Irmãos, immaginavano di vederci sorgere il Sol dell’Avvenir. E intanto che aspettavano, coltivavano frutta e verdura e la vendevano al mercato di Rio. Rocinha significa per l’appunto “il mio orticello”.
Anche la tortuosa strada che si inerpica per la favela si chiama Rua La Via Appia, strada La Via Appia. Pure i locali ricordano nei nomi l’Italia. Pranziamo in uno strano posto dove il cibo viene venduto solo a peso. Lo hanno chiamato La Roma.
Finalmente raggiungiamo Barbara nella sede della sua associazione. Un’ingarbugliata casa a più piani con stanze piccole distribuite in altezza. Ci sono ragazzi e ragazze di ogni età in ogni stanzetta che parlano, mangiano e smanettano ai computer. Nella terrazza dove è stata improvvisata una scuola di ballo (samba, mano a dirlo), chiacchieriamo con Barbara e suo marito. Che ragazzi vengono qua? Come li contattate? “Sono loro che vengono da noi - mi spiega -. Nella favela tutto sanno tutto di tutti. Voi, ad esempio, non siete certo passati inosservati. Tutti sanno dove siamo e chi ha bisogno entra. Sono ragazzi cui è stato rubato tutto. Nessuno gli ha mai dato niente. Né affetto, né cultura ma neppure cibo. Sai quanti di loro hanno carenze vitaminiche? Ti pare possibile in un Paese come il Brasile dove la frutta la trovi in ogni angolo? Ma un arancio costa come un piatto di fagioli e se hai fame scegli il secondo che ti riempie di più. E una economia diversa quella che vige qui dentro. A fianco della povertà, c’è anche un ceto medio. Intendo... medio per i criteri di Rocinha. Qui nessuno paga le tasse e c’è chi ha messo su piccole attività familiari con cui campa. Attività che però non gli consentono di cambiare vita e quartiere!”
A Rocinha tutto costa meno perché la gente non ha soldi. La favela, che qui chiamano “comunità”, è anche una discarica dell’economia globale. A pagarne le spese per primi sono i bambini. “Tra quelli che vedi ballare alle tue spalle - continua Barbara -, uno è mi è svenuto per la fame davanti alla porta, un altro non ha parlato con nessuno per anni. Poi mi ha raccontato che viveva accanto alla casa che i narcos usavano per le torture”. Rocinha infatti era gestita dai narcotrafficanti del cartello dell’Ada, Amigos dos Amigos. Il 13 novembre 2011, la favela è stata “pacificata”. Tremila soldati e 18 carri armati sono entrati e hanno cacciato i narcos che vi governavano. Ma si può davvero parlare di pacificazione? “Con 3000 soldati armati e 18 tank? Non farmi ridere! C’era da farsi addosso dalla paura! Per fortuna non ci sono stati morti e feriti come per la ‘pacificazione’ del Complexo Do Alemao (altra favela di Rio ndr). Ma non sono certo mancate le violenze gratuite! Per mesi avevamo paura ad uscire per le strade occupate da militari in divisa nera satinata che avevano come simbolo sulla divisa un teschio con un coltello infilato sul cranio e due mitra incrociati sotto! Avevano la licenza di uccidere e non si dimenticavano mai di ricordartelo. Se per te questo è pacificare... La verità è che le favele hanno sempre fatto comodo prima al potere dittatoriale e poi a tutti i governi. Ogni tanto fanno qualche progetto da campagna elettorale ma tutto resta come prima. Hanno cacciato il governo dei narcos e adesso son lì a chiedersi con cosa sostituirlo. Perché, ti ripeto, la verità è che le favele fanno comodo al potere politico ed economico”.
Salutiamo Barbara e scendiamo a Ipanema dove un gruppo di ragazzi da settimane sta bivaccando con tende e cartelloni d protesta nel bel mezzo della strada principale sul lungo mare, proprio davanti all’elegante palazzina del governatore dello Stato di Rio, Sergio Cabral. Qualche giorno fa, la polizia li ha sgomberati violentemente. Troppo violentemente anche per i criteri brasiliani che certo non sono teneri. Si è così creato un movimento di opinione che li ha sostenuti e li ha fatti scarcerare. La sera stessa, sono ritornati dove erano prima. Hanno messo anche qualche tenda in più.


Delocalizzazione o morte. O tutte e due

Rio de Janeiro
- Son le cose che gli italiani all’estero devono mettere in preventivo. Un signore mi avvicina mentre faccio colazione in quest’incasinatissimo groviglio di scale, corridoi, stanze e altane che è l’Art Hostel e mi chiede incuriosito come mai a “voi italiani” piace tanto il Berlusconi. Siccome non ho nessuna voglia di abbruttirmi arrampicandomi per ore in astruse spiegazioni, assolutamente inutili a far comprendere il fenomeno a chi non vive nel Bel Paese, quando mi fanno questa domanda - e succede sempre! - alzo gli occhi al cielo e sospiro in una maniera così penosa che non hanno più il coraggio di farmi altre domande. Per vendetta gli chiedo di Lula. Il gentile signore mi confessa che a Lula, lui, ci aveva anche creduto. “Qualcosa di buono ha fatto... e poi era sempre meglio della destra”.
Il signore dell’ostello non è il solo che al presidente operaio (intendo Lula, non quello nostrano) ci aveva creduto. Poi si son resi tutti conto che per la classe operaia non ci sono paradisi su questa terra. “Quando vinse le elezioni nel 2002 ci sembrava che tanti anni di lotte fossero arrivati alla conclusione. E agli inizi era proprio così. Lula accettò di istituire il ministero per la casa e ne affidò la direzione al sindaco di Porto Alegre, Olívio Dutra. Ci volle poco per capire che la lotta sociale non può mai abbassare la guardia e che un governo di sinistra può rivelarsi un avversario più ostico che un governo di destra”. A parlare è Lurdinha Lopes. A vederla per strada, sembrerebbe la classica zia che ti mette nel forno le torte di mele. A sentirla parlare di casa come diritto e non come merce, di occupazioni, e di resistenza agli sgomberi, cambi subito idea. Veste una maglietta rosso fuoco dell’Mnlm, il movimento national de luta pela moradia (lotta per la casa) di cui è una portavoce e ci accoglie in un palazzone che si erge nel bel mezzo della City, l’elegantissimo quartiere degli affari di Rio. Un palazzo occupato, naturalmente. L’hanno chiamato palazzo Manuel Congo, nome di un eroe popolare nero contro la schiavitù, e fa parte dello dello stesso complesso del Municipio di Rio. Come dire che hanno occupato l’entrata di servizio del signor sindaco! Ci vivono 46 famiglie sfollate dalle favela che non hanno altro tetto che quello sopra la testa. Bella gente che stride come il sale nel caffè tra gli incravattati uomini d’affari della City con le borse di pelle in mano e le mercedes parcheggiate attorno al Manuel Congo.
Non è la sola occupazione gestita dall’Mnlm. Qua e là per Rio, troviamo altri palazzoni occupati. Tutti con nomi di schiavi ribelli, come il Maria Criola, per un totale di circa 400 “recuperi”.
“Dopo aver partecipato a tre inutili Conferenze governative di un ministero che si è rivelato un bluff, senza finanziamenti e senza struttura giuridica per operare - ci spiega Lurdinha -. Abbiamo partecipato alla terza a modo nostro: occupando le case statali vuote”.
Dopo Lula, con l’arrivo di Dilma, il dialogo col governo si è fatto ancora più difficile. Il Pt (partito dei lavoratori) ha sposato la causa degli speculatori edilizi. Tiene sfitte le case popolari - che pure sarebbero sufficienti a dare un tetto a tutti, assicura Lurdinha -, per non abbassare il prezzo delle case e punta sulla crescita edilizia. “Oramai le grandi compagnie si sono specializzate in grandi opere e grattacieli. Tra poco non ci sarà una sola casa di sue piani in tutta Rio”.
Ma per far questo è necessario fare spazio, conquistare territorio. Ecco allora la parola magica: delocalizzazione. Termine elegante per un concetto fetente. 65 mila disgraziati sono già stati allontanati da Rio, sempre con le cattive e mai con le buone. “Entrano nelle favele come si entra in territorio nemico, le occupano militarmente e mandano via la gente con la forza, sparando proiettili veri. Ai più fortunati danno una casa a tre ore da Rio. Con quello che costano i trasporti, questi disgraziati finiscono lo stesso per dormire per le strade, considerato che devono comunque venire in città per lavorare o per sfamarsi”.
Ogni giorno, polizia e messi comunali, girano per le favela “pacificate” e segnano con una vernice gialla, come si fa con gli alberi, le case da abbattere. E’ una pratica che non ha nessun valore né legale né pratico, ma che basta a far scappare e qualche volta anche suicidare chi ci vive. Vero e proprio terrorismo psicologico.
Il mondiale si è rivelato un ottimo escamotage per giustificare queste operazioni militari contro la povertà per la conquista di terreni lottizzabili. Le telecamere di tutto il mondo che verranno ad immortalare le gesta di Messi e Balotelli, devono trovarsi di fronte ad un “Brazil lindo”. A Copacabana la polizia ti dà 150 reais di multa se butti una cicca per terra. I soldi per le infrastrutture sportive che non sono riusciti a raccattare con l’aumento dei costi dei trasporti, rientrato dopo le proteste, li cercano anche qui. Oppure tagliando le spese per l’istruzione. Mentre parliamo con Lurdinha, veniamo a sapere che proprio nella piazza vicina c’è una manifestazione di studenti e professori contro i tagli. “Hanno capito che meno la gente sa e meno è pericolosa - mi dice uno studente - per questo non vogliono che studiamo e che capiamo quali sono i nostri diritti”.
Iniziative di protesta come questa - e che vengono puntualmente soffocate violentemente con cariche e lacrimogeni dalla polizia militare (quella civile si limita quasi sempre a dare supporto all’esercito) - sono oramai giornaliere a Rio. E vanno ad aggiungersi ai vari “Ocupa”. Proprio sulla scalinata del municipio, da un paio di mesi - ogni volta che li hanno sgomberati sono sempre puntualmente ritornati - si trova un accampamento di giovani che fanno riferimento al movimento che ha dato origine agli scontri di giugno. Sono quasi tutti a volto coperto. “Abbiamo imparato a nostre spese che è meglio non farci riconoscere - mi dicono - Non solo per la polizia, quanto per i gruppi paramilitari. Sono loro quelli che fanno sparire la gente.”
Elisa ha ventisette anni. Fa parte del movimento. MI racconta con un sorriso che è di origini calabresi e vorrebbe venire in Italia a vedere come facciamo politica perché, dice, “da voi non è una cosa violenta”. Col suo compagno porta ogni giorno acqua e cibo per i ragazzi della scalinata. Il suo ruolo di portavoce e di supporto logistico le ha impedito di coprirsi il volto. Ora vive nella paura perché i paramilitari l’hanno minacciata di morte. “Siamo scesi in piazza senza esperienza di lotta. Perché lo abbiamo fatto? Perché ci fa schifo la corruzione dello Stato, la politica di partito, la partecipazione limitata a tracciare una x su una scheda di simboli tutti uguali, la povertà, le ingiustizie ... Ci hanno fatto pagare un prezzo molto duro. Non sappiamo neppure bene chi siamo. Anarchici? Comunisti? O che altro? Solo una cosa abbiamo chiaro e in comune tra tutti noi. La volontà di resistere”.


513 anni di massacri (dato in aggiornamento)

Rio de Janeiro
- Arriva il sole, a Rio, e noi andiamo via. In questi giorni di passaggio tra il mite inverno tropicale e l’estate, possiamo vantarci di aver preso l’ultima “garua” della stagione fredda. Quella fastidiosissima pioggia che non è pioggia, tipica della fascia tropicale sudamericana, che ti bagna dappertutto senza cadere dall’alto perché sta tutta intorno a te. Con la garua non servono ombrelli. Serve solo rassegnazione e aspettare il sole che ti asciughi. Sole che, assicura il meteo, arriverà proprio domani. Le incantevoli spiagge di Ipanema e Copacabana cominceranno a riempirsi di musica e di bagnanti, e la carovana di Ya Basta partirà per il sud. Ci aspetta una lunga notte in pullman. Da Rio a San Paolo ci sono pressappoco 500 chilometri da percorrere.
Dopo la serata di ieri in cui abbiamo filmato i violenti scontri tra polizia e manifestanti, ci attende una giornata tranquilla. In queste ultime ore dobbiamo ancora incontrare tante persone a Rio: artisti, attivisti, protagonisti dei movimenti che nel giugno di quest’anno, sono scesi in piazza gridando al mondo intero, venuto per assistere alla Confederation Cup, che “Il Brasile si è svegliato” e che, più che di stadi privatizzati, hanno bisogno di ospedali e servizi. Ospedali e servizi. Un modo come un altro per chiedere democrazia, partecipazione, giustizia sociale, tutela dell’ambiente e della diversità.
Le persone da incontrare, dicevamo, sono tante e decidiamo di dividerci in piccoli gruppi con l’intenzione di ritrovarci verso sera al Maracanà. Non per assistere ad un bel derby “Fla - Flu” tra il Flamingo e la Fluminense,ma per visitare una strana palazzina che ai tempi di don Pedro imperatore doveva essere pure elegante, ma che adesso ti guarda come se fosse appena scampata da un terremoto. Sorge a un tiro di sasso dal Maracanà tirato a lucido per il mondiale prossimo venturo. Vicino a quel complesso di architetture lineari ed avveniristiche, la palazzina disastrata salta agli occhi come un pinguino che passeggia per piazza San Marco.
Avvicinandosi all’edificio, si capisce subito che è sotto assedio. Un assedio “duro”, di quelli in cui non si fanno prigionieri. Sulla finestra nobiliare del primo piano campeggia una striscione: “resiste”. Tutto attorno è stato tirato sù un reticolato da cantiere edile. Nei cartelloni appesi si legge: “il petrolio è nostro e il Maracanà pure”, “513 anni di massacri”.
Dentro, è Amazzonia. Quelli che vengono ad aprire il lucchettone per farci entrare sono tutti indigeni, per lo più della nazione Guaranì, anche se ti mettono subito in chiaro che sono oltre una 50ina le tribù che hanno dato origine all’occupazione.
Due di loro, parlando a turno, ci raccontano la storia di quell’incredibile palazzo che fu donato agli indigeni dall’imperatore don Pedro Secondo nel 1862. “Fu il primo riconoscimento ufficiale ai popoli originari - mi spiega Evandro - Per anni è stato un luogo magico per noi, i capi di oltre trecento nazioni originarie venivano sin qui, dopo interminabili viaggi in canoa o a cavallo, per incontrarsi e discutere. Rio allora era la capitale del Paese. E anche il luogo è simbolico. Qui sotto c’è l’ultimo cimitero dei Tupinanbù, una delle tribù estinte per l’arrivo dei bianchi. Sempre qui, nel 1910 Candido Marechal Rondon, un indigeno che aveva il grado di maresciallo nell’esercito, fondò il Servizio di Protezione Indigeno, togliendo le competenze in tema di popoli originali al ministero per la Guerra. Ancora qui, il 19 aprile del ’53 ci fu un grande incontro di tutte le nazioni sopravvissute e fu istituito il Museu Do Indio. Ancora oggi, in Brasile, si festeggia il 19 aprile come il giorno dei “popoli originari”.
Poi arrivano gli anni della dittatura militare. L’Amazzonia, indigeni compresi, viene venduta - ma sarebbe il caso di scrivere “regalata” - alle multinazionali. Nel ’78 il Museo fu trasferito nel quartiere di Botafogo. Perse la sua funzione di luogo di incontro per divenire un museo sterile, con l’entrata a pagamento, destinato per lo più ai turisti. La palazzina fu abbandonata a se stessa e divenne una delle sedi in cui gli squadroni della morte torturavano ed uccidevano gli oppositori del regime.
Nel 2006, con Lula al potere, una rappresentanza di indigeni, molti dei quali studenti della vicina università che si trova proprio dall’altra parte del Maracanà, decise di occupare (“ma noi preferiamo dire: riappropriarci”) della struttura. La palazzina fu rimessa a nuovo, furono sistemati uffici e nuove esposizioni artistiche, si organizzarono corsi di lingua indigena e di artigianato.
A cambiare le carte in tavola, ci pensa la Confederation Cup e il Mondiale. Il terreno del Maracanà è una miniera d’oro per la speculazione edilizia. Le aziende che hanno preso in gestione il Maracanà, diminuendo i posti e alzando i prezzi dei biglietti (“oramai bisogna essere ricchi per andare allo stadio - mi ha confessato un tassista - Non è più il luogo dove si saltava e si cantava tutti insieme. Ci hanno rubato un pezzo di anima”) progettano di costruire sopra il Museu Do Indio uno shopping center.
La polizia arriva la prima volta il 12 gennaio e sgombera di brutto gli occupanti. Qualche giorno dopo, gli indigeni sfondano i sigilli e si rimpossessano della loro palazzina. La polizia militare ritorna ancora il 22 marzo. Stavolta è una guerra. “Io ero qui e non avevo mai visto uno schieramento simile. Neppure sotto la dittatura. Avevano portato anche i carri armati - racconta Maria De Fatima De Lima Pinel, antropologa all’università federale Fluminense - Hanno picchiato donne e bambini, spaccato tutto quello che hanno trovato, dalle finestre agli arredi... tutto l’artigianato artistico è stato buttato in discarica... hanno divelto il pavimento e sfondato i soffitti... roba che per poco non gli cadeva tutto in testa! Con le ruspe hanno rivoltato la terra dove sorgeva l’orto botanico indigeno, ammassandola verso le porte. Quella finestra che vedi semi coperta, era il piano terra. I militari non si sono fermati neppure quando la terra ha restituito le ossa dei torturati!”
“E sai perché sono stati così violenti? - mi spiega Evandro - Perché non avevano un mandato! Quello se lo sono fatto fare una settimana dopo!”
Tanta violenza, tanta distruzione, tanta stupidità, tanta cattiveria. Tutto per niente. Il 5 agosto, con l’appoggio dei movimenti popolari che protestavano contro la vendita ai privati del Maracanà, gli attivisti indigeni si sono ri- ripresi la loro palazzina.
Piano, piano, con la perseveranza di chi sa di essere nel giusto, la stanno risistemando. Ne vogliono fare un’università, dicono. La prima università mondiale dei popoli originari.
Nè le ruspe, nè le botte, nè i carri armati sono riusciti a fargli cambiare idea.
Loro sono ancora là. Come erano là, quel 12 ottobre del 1492, quando un certo Colombo arrivò a bordo di una caravella.


Miseria e grattacieli

San Paolo
- La stazione degli autobus di Rio, come di tutte le altre città sudamericane in cui sono vissuto, è quanto più in Europa somiglia ad un aeroporto. Collegano enormi e lontane città col criterio della “fermata unica”. Ore ininterrotte di “volo” senza neppure prendere in considerazione una sosta nelle periferie, che a queste latitudini del mondo sono considerate come fastidi necessari dalle logiche dello “sviluppo economico”.
Ci sono i gate, le grandi sale di attesa con annessi bar, ristoranti e negozi di souvenir, gli schermi luminosi delle partenze e gli stand delle tante compagnie. Anche il biglietto è illeggibile proprio come quello degli aerei. Tutto bello e luccicante. E la prima impressione è che tutto sia pure facile ed ordinato. E come tutto quello che in Sudamerica appare ordinato quando ci vai a sbattere scopri che è di un incasinato che travalica qualsiasi criterio occidentale di razionalizzazione del fenomeno. A pelo, col biglietto in mano e col sistema “fai finta di essere stupido, mostra il tagliando, domanda a tutti quelli che incontri e spera”, riusciamo a salire sul nostro autobus. Bisogna mostrare i documenti al gate e qualcuno di noi ha lasciato il passaporto a Rio (così come le mutande e le calze. “Però mi sono ricordato dello spazzolino”). Ma siamo in Sudamerica. Uno conosce uno che conosce un altro e si parte lo stesso. E puntuali pure. E’ mezzanotte e mezzo.
Dopo sei ore trascorse a battagliare contro lo schienale del posto davanti, arriviamo a San Paolo che il sole è appena spuntato.
“Fais un frio pracarahio” è stato il primo commento. Ci infiliamo tutto quello di pesante che troviamo nel nostro guardaroba e raggiungiamo l’ostello.
Dire che siamo “nel cuore” di San Paolo non vorrebbe dire niente. La città - 20 milioni di abitanti - è troppo grande per avere un cuore. Ci basta un’ora di metropolitana in puro stile “linea 1 per il Lido” e un’occhiata ai grattacieli che ci sovrastano non appena usciamo come topi spaventati dal tunnel della metro, per capire che San Paolo non ha un cuore. E’ solo una immensa strada, l’Avenida Paolista, dove non vive nessun vivo. Banche, telefonie, shopping, grandi firme. Quattro o cinque chilometri di finestre tirate a lucido, altissimi edifici che se hanno meno di 15 piani gli viene il complesso del pigmeo. Su questa strada, addirittura il Palais Lumiére di Piero Cardin avrebbe avuto un suo senso. Il problema è che qui, in un mare di architetture da base spaziale, nessuno si accorgerebbe neppure della sua esistenza.
Il nuovo ostello non è colorato come quello di Rio. Sorge nel quartiere Bella Vista colonizzato da migranti... indovinate voi la nazionalità! Tre o quattro stanzoni da nove posti l’uno. Due tazze e una doccia per tutti. Domani mattina sarà una guerra.
Il pomeriggio lo dedichiamo ad esplorare la città. C’è uno di noi che deve comperarsi mutande e calzini, oltre che capire come tornare a Rio senza passaporto.
Ci dirigiamo verso Praça da Sé, dove sorge la cattedrale dedicata ad un tizio che un bel giorno ha deciso che gli indigeni dovevano assolutamente essere convertiti e per questo lo hanno fatto santo. Gli hanno pure fatto un bel monumento. Lui in alto sul basamento che guarda verso dio e gli “indio” ai piedi con faccia illuminata dalla gratitudine.
Man mano che ci si allontana dall’avenida Paulista, i grattacieli diventano sempre più disastrati. Finestre rotte, intonaco da reduce di guerra... solo l’altezza rimane. Trenta piani là, quaranta e cinquanta qua. Per trovare uno sputo di verde - peraltro battuto da un via via continuo di pattuglie di polizia civile in moto e di autoblindo da guerra della polizia militare - bisogna arrivare alla cattedrale. Attorno ai ricami gotici dei pinnacoli, ho contato quattro accampamenti di senza casa. I più fortunati con una tenda rattoppata, i meno sotto un cartone. Ci saranno perlomeno due o trecento disperati. Senza contare quelli che abbiamo visto per la strada. E questa sarebbe la “piazza San Marco” di San Paolo. “La polizia ha provato più volte ad allontanarli - mi ha spiegato un amico che vive qui da tanti anni - ma non ci riesce. Tornano sempre. Sono troppi”.
Attorno a noi fa sempre più freddo e torniamo gelati all’ostello. La notte scende in fretta a San Paolo. E non per questioni astronomiche. I grattacieli sono troppo alti e rubano luce e respiro. Si cammina in strettissimi canyon di cemento, tra la puzza dei gas di scarico e il tanfo delle immondizie rivoltate dai disperati in cerca di cibo. Il sole sparisce presto dalle strade pauliste. Rimane solo per un altro po’ ad illuminare le cime dei grattaceli più alti.


Samba e cortei

San Paolo
- Oggi a São Paulo do Brasil si sono svolte tre manifestazioni e noi ce le siamo fatte tutte. Manco fossimo attivisti di Ya Basta!
Si comincia la mattina presto. L’appuntamento è alla sede paulista dei Sem Terra. E’ abbastanza vicina al nostro ostello. Basta solo attraversare il quartiere che qui tutti chiamano Cracklandia. Non sto a dirvi quale sia la specialità di questo quartiere.
La sede dei Sem Terra è una palazzina elegante e arredata con buon gusto. Confesso che mi attendevo delle stanze molto più spartane. Ci sono sale riunioni tappezzate di colorati quadri naif, segreterie efficienti e comode sale di attesa per gli ospiti. Alcuni militanti ci fanno vedere i manifesti che stanno preparando. C’è una vecchia immagine bianco e nero della presidente Dilma ragazzina col classico cartone numerato in mano. E’ una Una foto segnaletica che la polizia le ha scattato dopo un arresto. Sotto, la scritta recita pressappoco: “Dilma, un tempo la pensavi come noi. Non puoi averlo dimenticato”.
A nome della segreteria dei Sem Terra, ci accoglie Raul, un giovane attivista che ci invita a partecipare alle mobilitazioni al seguito di Levante popular da joventude, una associazione giovanile vicina ai Sem Terra. Ce ne sono tre un programma, ci spiega, la prima organizzata dagli insegnanti e dagli studenti, la seconda dai sindacati di base e la terza, serale, davanti alle della Globo, il colosso editoriale e televisivo del Brasile. Raul ci chiede a quale vogliamo partecipare e noi gli rispondiamo: “A tutte e tre, naturalmente”.
Cominciamo quindi con gli insegnanti. Concentramento alle tre pomeridiane in piazza della Repubblica per sfilare in corteo lungo l’avenida Paulista. Ci saranno due o anche tremila persone. Sono per lo più insegnanti che denunciano i tagli alla scuola pubblica e il precariato. “Entrare in una università pubblica è sempre più difficile - mi spiega Letizia che parla un ottimo italiano, imparato in occasione di uno scambio culturale a Pavia - e anche per i laureati trovare lavoro è una impresa. I giovani che si avvicinano allo studio e al mercato del lavoro sono sempre più ricattabili. I diritti e le garanzie sempre di meno. La terziarizzazione si sta mangiando una generazione intera”.
Siccome tra giornalisti ci si riconosce a colpo d’occhio, attacco bottone ad un collega brasiliano. Si chiama Bruno Mascharenhas e, dopo avermi informato pure lui delle sue origini italiane ed informato che ci sono più italiani a San Paolo che a Roma, mi spiega per quali motivi la gente è incazzata nera. “I brasiliani sono persone aperte e cordiali e sentono questa politica delle larghe intese come una cosa distante e... come dire? repellente. I giovani in particolare ne sono schifati. Vedi quel cartello? Denuncia lo scandalo di un deputato riconosciuto colpevole dal tribunale di essersi appropriato di denaro pubblico. Eppure non lo possono arrestare perché è deputato!” Ve ben... non è che in Italia... “Voi siete abituati a Cosa Nostra, mafia e Berlusconi. Ma qui la gente si indigna”. Cambiamo argomento. Come è fare il giornalista in Brasile? “Come da voi, penso. Sempre meglio che lavorare! A parte gli scherzi, siamo una categoria ricattabiile e ricattata. Vedi? Io faccio le riprese e le interviste ma non so ancora quanto spazio mi daranno e neppure se andrò in onda. Se poi sono qui, hai già capito che sono uno di quelli che non farà carriera”.
Quando il corteo si muove, lo fa a ritmo di samba sotto una dozzina di mongolfiere colorate. Sono i giovani e in particolare le ragazze a scandire gli slogan. E rispetto ai nostri cortei, c’è da dire che, in quanto a percussioni ci danno la cacca! E tanta anche. Gira e rigira, ogni canzone, ogni slogan va sempre a cascare sul samba. Vi dico solo una cosa: scrivo che è l’una di notte e ho ancora la testa che mi rimbomba! Patapim, patapam e patapum. Fatevi voi otto ore così!
Verso metà dell’avenida Paulista, il corteo si congiunge con quello dei sindacati e si prosegue insieme. Su e giù per l’arteria pulsante di San Paolo. Alle sei di sera, il nostro Raul ci avvisa che, se vogliamo partecipare anche alla manifestazione contro la Globo dobbiamo sbrigarci e salire su dei pulman del tipo Gran Turismo, organizzati dei Sem Terra per raggiungere il quartiere della Globo. Sempre che non siamo troppo stanchi, ci chiede. L’avenida Paulista è interminabile, a farsela a piedi.
Ma quando mai? Tre manifestazione al giorno, per noi, è un minimo sindacale.
La concentrazione è alle sette di sera. Pare sia normale a San Paolo. Finito di lavorare, prima di andare a casa, si fanno un corteo invece dello spritz.
Per raggiungere la piazza di partenza, il pulman ci impiega un’ora e mezzo a fare lo slalom in questa foresta di grattacieli che chiamano città. Appena scesi, si capisce che l’aria è diversa. Sono quasi tutti giovani e giovanissimi. Le ragazze qui sono in percentuale ancora maggiore. Sono loro che reggono tutti gli striscioni e le bandiere. Chiedono democrazia anche nei media. La Globo è un colosso multimediale che appartiene ad una solo famiglia, la Marinho. E’ una azienda a controllo privato ma che gestisce denaro pubblico. Stando ad alcune inchieste in atto, pure in maniera poco pulita. Inoltre, la Globo detiene pressoché il monopolio dell’informazione su carta e su etere del Brasile. Come se non bastasse, dicono i manifestanti, la Globo più che giornalismo fa politica e ha contribuito a far eleggere al senato alcuni suoi manager alquanto chiacchierati. (In Italia invece...)
Mentre su San Paolo calano le prime ombre della sera, il corteo per la democrazia nell’informazione si prepara a muoversi e raggiungere la sede della televisione, un paio di chilometri più avanti. E’ allora che si fanno vivi i black bloc. Gruppi auto organizzati che in Brasile ha una connotazione totalmente diversa che in Europa. Vestono di nero e coprono il volto con sciarpe e scialli. Dubito che ce ne sia uno solo con più di venti anni sulle spalle. Chiedo ad uno di loro chi sono. Parla volentieri e si lascia anche fotografare. “Siamo anarchici - mi racconta -. Copriamo il volto per proteggere noi stessi, così come il nostro scopo è proteggere il corteo dalla polizia militare”. Lo stesso Raul, mi ha spiegato che pur non avendo una vera connotazione politica e neppure una struttura organizzata, i Sem Terra non hanno problemi ad organizzare le manifestazioni con questi giovani ed anzi stanno dialogando con alcune loro figure di riferimento. In effetti, black bloc, Sem Terra e altri attivisti partono tutti insieme, sorreggendo gli stessi striscioni. Presto però, i black bloc si dispongono ai lati e alla testa del corteo. Parte qualche pietra contro una sede della banca tedesca ma niente di più. Il corteo non è autorizzato ma la polizia militare stavolta non interviene. Davanti alla Globo i manifestanti depositano una bella quintalata di merda puzzolente. Poi il corteo fa dietro front e ritorna alla piazza di partenza. Sempre a ritmo di samba, naturalmente.


La scuola dei Sem Terra

Jacarei
- Per trovare un po’ di quel verde per cui il Brasile è famoso, bisogna scammellare verso est sul solito pullman “gran turismo” per almeno un paio di orette. Quando la foresta grigia dei grattacieli cede finalmente il posto ai colori e ai profumi di quella tropicale, scendiamo a Jacarei, un piccolo municipio dello Stato di San Paolo che non ha assolutamente niente di notevole se non la presenza di una scuola molto particolare: la scuola nazionale Florestan Fernandes dei Sem Terra.
Arriviamo sin qua con Claudio, che è il nostro referente paulista. Ha sposato una brasiliana e vive da quest’altra parte dell’oceano da tanto tempo. E’ un astrofisico e vive con una borsa di studio dell’università di San Paolo per la quale sta preparando dei modelli matematici di simulazione del comportamento del gas cosmico. In Brasile però non ci è arrivato per l’astronomia ma per insegnare ai bambini delle favele a lavorare la terracotta. Lo aveva chiamato un prete suo amico legato alla teologia della liberazione. “Poi è cambiato il vescovo e quello nuovo, la prima cosa che ha fatto, è stata quella di buttarci fuori tutti e due” mi racconta. Così è tornato a lavorare come astrofisico. Dalla scienza al sociale, dal cosmo alla favela. Tutto ciò ti regala equilibrio? “No. Schizofrenia”.
Jacarei è una lunga strada di pietre che scorre tra “quasi” villette, con bei giardini adornati da grandi fiori colorati.
Trovare la scuola dei Sem Terra non è affatto difficile. Un ampio murales che inneggia alla riforma agraria ce la segnala. Veniamo accolti gentilmente da una ragazza che dopo i saluti iniziali ci mostra, non senza un po’ di orgoglio, le varie strutture della scuola realizzata non più di dieci fa grazie a contributi di poeti musicisti come il grande Chico Buarque. Ogni palazzina è costruita in cotto e legno, coperta di piante rampicanti tropicali. C’è la biblioteca con 50 mila volumi (“Tutti donati dai compagni. Noi non chiediamo ne riceviamo finanziamenti federali”), le foresterie capaci di accogliere 180 persone (“In tanti vengono da noi per studiare o per conoscerci meglio”), le scuole (“I giovani qui studiano agraria ma anche informatica o politica. Qui prepariamo i nostri dirigenti”), la serra (è un vero delitto che con la sola scrittura non possa comunicarvi i profumi e gli odori che ho sentito!), la mensa, la lavanderia e altri ancora.
La compagna dei Sem Terra snocciola numeri su numeri: quanta gente passi ogni anni per queste aule, quanti giovani dedichino uno o due anni della loro vita a lavorare a questa scuola che loro considerano un vero e proprio bene comune... Ma al di là dei numeri, che vogliono dire tutto e niente, quello che ho visto è un luogo incantevole dove la gente ti sorride, canta - c’è sempre qualcuno con la chitarra in mano - e lavora senza mai dimenticare di scherzare e ridere.
Oggi è una giornata speciale, mi racconta la ragazza. C’è una cerimonia in corso perché una di loro, dopo due anni di studio e lavoro nella scuola, torna a casa. Veniamo invitati alla festa. Non si capisce niente di quello che dicono, ma tutti sono commossi.
Nel campo c’è anche una rappresentanza cubana con tanto di ambasciatore al seguito. Stanno piantando un albero tra inni a Fidel e grida di “viva la revolucion cubana”. Tutto ‘sto sfoggio di socialismo reale non è proprio una cosa facile da digerire per noi, pur se bisogna comprendere che ogni cosa deve essere riportata al luogo e alle contingenze.
La presenza di Cuba, scopriamo, non è affatto casuale. Nell’aula magna della scuola è in corso un incontro di medici cubani. “Il Governo brasiliano - ci spiega Claudio - ha chiesto a Cuba di fornirgli dei medici per coprire i posti vacanti nel sistema sanitario del Paese. Qui in Brasile, come negli Stati Uniti la sanità è per lo più privata e gestita dalle assicurazioni. Tutti i medici migliori studiano nel pubblico perché la scuola privata, non dico che regali le lauree, ma quasi. Dopo gli studi però vanno a lavorare nelle cliniche private che li pagano tre volte tanto. Il tutto a grave discapito della sanità pubblica. Così il Governo ha chiesto a Cuba dei dottori da impiegare là dove i medici nostrani non vogliono lavorare, ma questo ha scatenato le durissime proteste dei medici. Il congresso in atto in questo momento nella scuola è un modo per dire che noi, i medici cubani, li vogliamo. Teniamo anche presente che nessun medico brasiliano accetterebbe di andare a lavorare nelle terre occupate dai Sem Terra. I cubani sì”.


Diritto di occupazione

Jandira
- L’altare è un tavolo di plastica bianco. Le sedie dei fedeli sono quelle che si trovano nei bar delle stazioni. La chiesa, un magazzino dal soffitto basso. L’affresco, un coloratissimo murales che ritrae dei bambini che giocano su un campo di grano. Padre Giancarlo, brasiliano di Padova, sta celebrando la messa in puro stile “teologia della liberazione” per una mezza dozzina di credenti. Lo aspettiamo fuori ed intanto ne approfittiamo per fare un giro per la Comuna.
Siamo nella favela di Jandira. Una città con poco più di centomila abitanti che, pur con un suo municipio autonomo, fa parte della Grande San Paolo. Qui non ci sono grattacieli. A valle si trovano le case della città, collegate alla capitale dall’onnipresente servizio di metropolitana. La favela si inerpica sulle colline a ridosso del complesso urbano. E’ una zona di frontiera tra l’urbanizzazione selvaggia e la foresta, tropicale sì ma non selvaggia.
La Comuna di Jandira è riconoscibilissima dalle bandiere dei Sem Terra, rosso fuoco con al centro dei contadini che alzano al cielo il machete. Ma è riconoscibile anche dalla forma delle case, tutte monofamiliari a due piani, tutte uguali nelle dimensioni ma diverse nella forma, sistemate in modo da formare delle piazzette tra loro. Mi richiamano subito alla mente le case popolari realizzate dell’architetto Scarpa a Burano, non fosse che qui non hanno ancora i soldi per sistemare gli intonaci e i mattoni rimangono a vista.
“Le abbiamo fatte noi” mi racconta Erika, una corposa e battagliera signora che mi puntualizza anche che lei è l’unica della Comuna a non tifare per il Corinthias e che di conseguenza non condivide tutta l’agitazione che si respirava attorno per la vicina partita col Flamenco. Partita, tra parentesi, vinta dal Corinthias per 4 a zero e con due gol dell’ex milanista Pato.
Erika che non ha impegni con la torcida, ci offre un caffè e ci racconta la storia della Comuna nata da 250 famiglie che avevano occupate un’area appartenente alle ferrovie dello Stato. Nel 2005 sono state sgomberate con un indennizzo da miseria di 1200 reais a famiglia (pressappoco 400 euro). Grazie a don Giancarlo, che qui tutti chiamano Gianchi, che li ha messi in contatto con i Sem Terra decidono di mettere i soldi in comune e di cercarsi un’altra terra da occupare. La trovano a Jandira, in quest’area che apparteneva ai salesiani. Entrano e ci piazzano le tende, quindi scrivono una lettera al presidente Lula informandolo dell’occupazione e chiedendogli aiuto economico. “Lula ci ha risposto un mese dopo - continua Erika - informandoci che era riuscito a far stanziare un milione e mezzo di reais per l’acquisto di questa area e per le prime spese. Per i Sem Terra la nostra occupazione è stata un punto di svolta perché prima avevano appoggiato solo occupazioni contadine e non urbane. Fatto sta che ci siamo rimboccati le maniche e abbiamo cominciato a costruire in mutirão”. Termine che indica un lavoro in comune. Tutti aiutavano a costruire la casa di tutti, secondo un disegno condiviso da tutti. Le case, dicevamo sono uguali nelle dimensioni - 75 metri quadri in due piani, più un terrazzino - ma diverse nella forma. “Ognuno poteva scegliere tra cinque tipi di case, a seconda delle sue esigenze familiari. Lavoravamo la domenica e il sabato. Tutti insieme. All’inizio non sapevamo neppure come si facesse la malta. Ora abbiamo imparato tutti il mestiere di muratori”. E pure di architetti, aggiungo io. E senza aver fatto lo Iuav. O forse, proprio per questo!
Cattiverie a parte. Le case della Comuna di Jandira, sarà che sono abituato agli standard abitativi della mia laguna, sono davvero piacevoli. Mancano di intonaco e di infrastrutture, questo è vero. Le strade sono a dir poco disastrate, l’acqua viene da dei tubi esterni che pescano chissà dove, le condotte delle acque reflue sono desaparecidas, gli impianti elettrici toglierebbero il sonno per sempre ad un tecnico della 626.
“Noi in tre anni abbiamo tirato su tutte le case - racconta Gianchi che ci ha raggiunto dopo aver sparso le sue benedizioni - la municipalità in dieci anni non è riuscita a far niente. Eppure i soldi erano stati stanziati. L’amministrazione comunale dice che ha dato i soldi alla ditta per i lavori, la ditta che non li ha ricevuto. E chissà dove sono finiti, questi soldi. Intanto noi stiamo così”.
Gianchi è uno di quelli che pensano che di occupazioni a questo mondo non ce ne sono mai abbastanza. Così ci infila tutti su due macchine scassate e ci accompagna a vederne altre due, dall’altra parte della collina. Sono occupazioni recentissime. Due giorni di vita appena. Commovente! “L’altra settimana eravamo su un altro campo. Poi sono arrivati 500 poliziotti con manganelli, lacrimogeni e pure un elicottero. Ci hanno mandato via a botte senza curarsi di dove avrebbero dormito i bambini quella sera”.
Siamo in mezzo ai campi. Sulla sommità di una collina che offre allo sguardo un panorama da mozzare il fiato. Le case di Jandira in basso immerse nel verde e sullo sfondo lo skyline degli enormi grattacieli di San Paolo. “Abbiamo scelto questo terreno perché appartiene ad un criminale che è indebitato sino al collo con il municipio di Jandira - mi spiega un occupante - E anche perché si gode di una bella vista!”
Sotto le bandiere dei Sem Terra che si gonfiano al vento dei tropici, donne, uomini e bambini lavorano per costruire le prime capanne. “Adesso attendiamo una risposta da parte del Governo. Ancora la polizia o qualche politico in cerca di voti per trattare - mi dice Gianchi - . Nel primo caso, occuperemo da qualche altra parte perché questa gente deve pur aver e un tetto e una terra. Nel secondo staremo a vedere”.
Arriva il momento di tornare in città. A San Paolo c’è la partita del Corinthias e metà carovana non vuole perdere un avvenimento di tale rilevanza culturale.
Gianchi ci saluta uno per uno, abbracciandoci. “Bene ragazzi. Grazie per essere venuti alla Comuna di Jandira. Raccontate a tutti quello che avete visto e, se avete problemi in Italia, tornate qua che tiriamo su una baracca anche per voi”.


Nostalgia canaglia

San Paolo
- Igor, Cassia e Carla sono tre dirigenti della sede paulista dei Sem Terra. Li andiamo ad incontrare in tarda mattinata. Il programma della giornata non prevede niente altro di particolare. I tre giovani ci aspettano nella sede dei Sem Terra che oramai conosciamo bene. E’ il momento di spiegare loro come è nata e come lavora Ya Basta. Quindi parliamo delle rivolte di giugno e dei motivi che le hanno scatenate. L’aumento dl prezzo dei trasporti, ci spiegano, è stata solo una scusa o, se vogliamo, la classica goccia che ha fatto traboccare il vaso. “Il vero problema è la situazione di stallo che si è creata In Brasile dove gli spazi di partecipazione democratica si restringono sempre di più- afferma Igor -. La gente consegna ai partiti la possibilità di fare politica ma i partiti non riescono a farla perché questa è stata sequestrata dall’economia capitalista. La crescita economica che sta vivendo il Paese non ha portato nessun vantaggio reale, in particolare alla classe media che, assieme ai giovani, è stata la vera protagonista della mobilitazione”.
Lula e Dilma? “Si sono rivelati incapaci di apportare miglioramenti strutturali e di avviare un vero processo di democratizzazione del Paese. In questo stato di cose, sono i movimenti che devono portare avanti le battaglie di democrazia e di giustizia sociale. I partiti non possono fare più niente”.
Nel pomeriggio cerchiamo ancora contatti con le realtà che hanno dato origine alle manifestazioni di giugno. Ma oramai si sta avvicinando il giorno del nostro rientro in Italia. Questa notte partiremo per lo Stato del Paranà per visitare la cooperativa che fornisce lo zucchero che vendiamo nei nostri spazi. Non abbiamo ancora deciso quanto resteremo a sud. Cerchiamo comunque di completare un calendario di incontri per i pochi giorni che trascorreremo ancora a San Paolo.
A onor del vero, bisogna sottolineare che la città che all’inizio mi sembrava solo una New York dei poveri, mi sta rivelando un po’ alla volta la sua anima latino americana. San Paolo, seduta proprio sopra il tropico del Capricorno, non è sempre stata quella foresta di grattacieli che è ora. Negli anni ’30 era una piccola cittadina con appena 60 mila abitanti, tutta concentrata sull’asse dell’avenida Paulista. L’urbanizzazione selvaggia, senza uno straccio di piano regolatore, è avvenuta tra gli anni ’50 e ’60 quando ognuno si sentiva autorizzato a tiare su il suo grattacielo. Oggi, senza contare le periferie che sono oramai inglobate nella Grande San Paolo, la città conta più di 11 milioni di abitanti ed almeno 50 topi per abitante!
Bisogna viverci un po’, per rendersi conto che quelle strade sotto i grattacieli dove il sole batte poche ore al giorno, non sono tutte uguali. Ogni quartiere ha una sua identità e la suo scuola di samba dove, mi hanno assicurato, trovi sempre qualcuno che balla a tutte le ore del giorno e della notte. Per quanto ho potuto constatare io, è vero. Il mio ostello sta a Bela Vista (con una elle sola), il quartiere italiano. La sua scuola di samba occupa il primo e il secondo piano di un edificio di una dozzina di piani. Pochi da queste parti. Le finestre e le porte sempre spalancate per far uscire la musica. La scuola è un punto di riferimento sociale per tutto il quartiere. Ha i suoi colori, i suoi eroi e le sue scuole nemiche.
Ed è proprio la scuola di samba che ha organizzato, ieri sera, la festa italiana. Le strade erano piene di gente che rideva e scherzava sotto festoni di bandierine tricolori. I banchi vendevano “raviolli” (con due elle), “fogazza napoletana” (una specie di quella genovese), “rissotto” (con due esse), “calabresa” (una sorta di salsiccia ultra piccante che dubito abbia qualcosa a che fare non solo con la Calabria ma con tutta l’Europa)... C’erano pure le “pizzaria” (con la a) che sfornavano delle cose tonde che assomigliavano alle pizze. E poi cd e dvd della più terrificante musica melodica italiana, da Albano&Romina a dei mai sentiti prima cantanti in smoking che dubito si siano mai azzardati a salire su un palco in patria. Tante magliette con il Padrino, il bianconero della Juve con il nome Del Piero o la scritta “Venezia”. Tutto bianco, rosso e verde da muovere tenerezza. L’Italia, da questa parte dell’Equatore, è solo il ricordo spampanato di una nostalgia del bisnonno.


Trabalhar sem patrão

Paranacity
- L’alto Paranà è un’infinita e ondulata distesa di pascoli. Niente montagne, niente laghi, niente fiumi. Solo pianura attraversata da lunghi sentieri di terra battuta di un colore rosso crudo. Anche gli alberi sono rari. Gli sparuti villaggi sono formati da casette monofamiliari, rigorosamente piano terra, di mattone o di legno, dipinte per lo più di varie tonalità di giallo. Ogni casa è circondata da un giardino adornato da alberelli o da cespugli da cui sbocciano polposi fiori rosso acceso. Le rotonde delle stradine dove il nostro pullman Gran Turismo si infila a malapena, girano attorno a piccoli monumenti ingenui dedicati a mandriani al rodeo o ad animali come il feroce giaguaro o il timido capibara.
Arriviamo nello Stato del Paranà, uno dei più meridionali del Brasile, dopo una intera notte di viaggio. Otto ore per raggiungere Londrina, altre tre per arrivare a Paranacity dove ci attende un furgoncino della Copavi. Un’altra ora di strada sino ad una deviazione segnalata dalle bandiere rosse dell’Mst. Qui si entra nell’assentamento Sta. Maria, il cuore delle Cooperativa de Produção Agropecuária Vitória, da cui proviene lo zucchero di canna che Ya Basta vende negli spazi sociali per sostenere la lotta dei Sem Terra.
Il villaggio vero e proprio è composto da una trentina di case. Sono come le altre case del Paranà solo che i giardini non hanno muri o cancelli. Ci sono moltissimi fiori. I brasiliani evidentemente hanno un grande amore per le aiuole. Un amore che non riesco a mettere a fuoco se penso che già vivono in un mondo che più verde e fiorito non potrebbe essere. Gli spazi esterni sono attrezzati con amache e divani come chi ama vivere all’aperto e in comunione con i vicini.
Non veniamo ricevuti da un solo portavoce, come ci saremmo aspettati, ma da tutta la comunità. Chi in quel momento non è impegnato a lavorare per la cooperativa, si prende cura di noi e dei nostri bisogni. Francisco, uno dei coordinatori anziani, essendo in pensione è uno di quelli che ci dedica più tempo. Ci porta a vedere la lavorazione dello zucchero e poi, davanti ad una ottima cachaca rigorosamente auto prodotta “da reforma agraria” dalla cooperativa, ci racconta la storia della Copavi. L’occupazione del latifondo, circa 220 ettari di terreno, è avvenuta nel ’93 sotto le bandiere dei Sem Terra. Oggi ci vivono 22 famiglie per circa una settantina di persone, bambini compresi. Lavorano come dipendenti anche 15 lavoratori esterni. “I primi occupanti venivano dal sud del Paranà ed erano abituati ad altri tipi di coltivazioni - ci spiega Francisco -. Ma il terreno argilloso che non è particolarmente fertile non si è rivelato adatto. All’inizio è stata dura ma poi abbiamo provato con la canna da zucchero e si è rivelata una scelta vincente perché il prodotto finale è ottimo e lo si commercia bene”.
Oltre allo zucchero e alla cachaca, la Copavi ha un allevamento di mucche da latte e produce una serie di dolci come biscotti e torte del tipo “quelle che faceva mia nonna” che sono una cosa da leccarsi i baffi. La Cuca, sorta di pan di Spagna dolce, viene usato come merenda da una sessantina di scuole del Comune di Paranacity. E’ un vero peccato che questi prodotti non si possano esportare in Italia.
Gironzolando per gli impianti di lavorazione conosciamo anche la presidente della cooperativa. Si chiama Solange, è stata una delle prime occupanti e la troviamo intabarrata con grembiulone e mascherina da lavoro mentre mescola dei pentoloni fumanti . Come si lavora alla Copavi? “Lavoriamo per noi, per la nostra terra e senza padroni. Che vi devo dire? Se pensate che nei latifondi vicini esiste ancora la schiavitù, questo per noi è un sogno realizzato”.
Continuiamo la visita con altri accompagnatori che ci illustrano i metodi di coltivazione biologica e sostenibili della cooperativa. Chiediamo anche come funziona la partecipazione alle scelte collettive. Le cariche, ci spiegano, sono a rotazione. Prima o poi tocca a tutti fare il presidente. E comunque il presidente lavora come gli altri. Le famiglie sono divise in “nuclei”. Durante le assemblee di nucleo possono parlare anche i bambini e gli adolescenti. Ogni nucleo vota un coordinatore che si accorda con i coordinatori degli altri nuclei. Più che le votazioni per alzata di mano, conta la discussione e il confronto. Si preferisce parlare sino a mettersi d’accordo più che andare a scontri o dividersi a fazioni. Alla fine ogni decisione viene ratificata da un assemblea collettiva. Poi ci sono le commissioni ciascuna delle quali si occupa di un particolare aspetto della conduzione della cooperativa. Un sistema molto simile a quello che ho incontrato nei Caracoles del Chiapas.
A mezzogiorno pranziamo nel refettorio con i lavoratori. Con nostra sorpresa, alla fine ognuno lava il suo piatto e anche noi dobbiamo fare la nostra parte. Non ci fanno pagare niente. Non ci sono incontri o visite programmate. Siamo ospiti e liberi di fare quello che vogliamo, andare dove ci pare e parlare con chi ci capita.
E, in quanto ospiti, ciascuno di noi è invitato a cena nella casa di una famiglia per poi andare in un’altra casa per dormire.
Sarà una bella esperienza.


Terra libertada

Paranacity
- Alla Cooperativa de Produção Agropecuária Vitória si va a letto presto e ci si alza ancora più presto. Quando mi tiro giù dalla branda io, verso le sette di mattina, il mio ospite è già sui campi da un pezzo. Si chiama Donizetti (“Papà era appassionato di musica”) fa il contadino e l’attivista dell’Mst. Due cose che per lui sono consequenziali. Mi ha lasciato l’unica camera da letto e si è accomodato per la notte sul letto del figlio che fa la scuola in un’altra città. Vive in una casetta che si è costruito assieme ai compagni della Copavi, uguale nella metratura a quelle di tutti gli altri. Tre o quattro stanzini al pianterreno tenuti in ordine e puliti. Ha anche una discreta libreria. I primi due titoli su cui mi casca l’occhio sono libri che ho anche io: “Il piccolo principe” e “Senza perdere la tenerezza”, la biografia del Che scritta da Paco Ignacio Taibo II. Questa mattina, Donizetti si è alzato piano, badando bene di non far rumore per non svegliarmi. Mi ha lasciato sul tavolo caffè e biscotti rigorosamente autoprodotti. Uscendo, chiudo l’uscio e, come mi ha chiesto, gli lascio la chiave infilandola dentro uno stivalone in gomma da lavoro sul pianerottolo. Gli lascio anche un biglietto con scritto “Obrigado” proprio sotto la bandiera dei Sem Terra che Donizetti ha appeso a fianco della sua porta.
Al refettorio trovo il resto della carovana che va di torte e caffelatte. Ciascuno racconta la sua serata trascorsa in un diversa famiglia.
Prima di andare a dormire da Donizetti, sono andato a cenare da una famiglia di mezza età che mi ha preparato tanto di quel cibo che non lo saltava un cavallo. Parlavano solo portoghese ma siamo riusciti a capirci lo stesso. La figlia grande è laureata in economia ed è anche lei una attivista dell’Mst. Il figlio più piccolo gioca a calcio ed è stato appena messo a contratto dalla giovanile di un’importante squadra di Porto Alegre. Sugli altri figli ho perso il conto.
Sono molto contenti quando hanno ospiti stranieri perché, mi hanno spiegato, un ospite straniero porta storie, idee e comportamenti nuovi da cui hanno tutto da imparare. Quando alla Copavi arriva qualche visitatore, si innesca una lotta per contenderselo. Solo gli argentini, mi spiegano, nessuno li vuole. Gli stanno tutti sulle scatole, e in particolare quelli di Buenos Aires, perché “è gente che se gli racconti una barzelletta poi gliela devi spiegare e non ridono lo stesso”. Molto meglio i paraguaiani e gli uruguaiani. Quelli basta mettergli un mate in mano e diventano simpatici.
Il programma di oggi prevede una visita alle piantagioni di canna da zucchero. Mezz’ora di cammino e raggiungiamo il campo dove quattro o cinque contadini tagliano le canne a colpi decisi di machete. Il nostro accompagnatore ci racconta come avviene la produzione dello zucchero di grande qualità che Ya Basta mette in vendita negli spazi sociali. Una produzione rigorosamente biologica che tiene anche conto dei diritti dei lavoratori. Diritti che vengono completamente ignorati nei campi dei latifondisti dove viene praticata una forma di indebitamento del lavoratore riconducibile ad un vero e proprio schiavismo rurale.
Prima di ripartire per San Paolo, facciamo visita all’“acampamento” dei Sem Terra di Puricatù, ad un’ora e mezzo di auto dalla Copavi. L’”acampamento” è la seconda fase dell’occupazione. Prima c’è l’invasione del latifondo con tutte le pratiche di resistenza e di contrattazione con il ministero per la riforma agraria e il latifondista. Se non si arriva allo sgombero da parte della polizia o, peggio ancora, dei paramilitari, i Sem Terra cominciano a costruire case e scuole, ed a lavorare la terra. Questa è la fase dell’”acampamento”. La terza è la strutturazione di un’azienda agricola vera e propria come, per l’appunto, la Copavi.
Quando raggiungiamo l’”acampamento” di Puricatù veniamo subito colpiti da una dozzina di casette colorate sistemate, con tanto di aiuole fiorite e murales, nel punto più bello della zona. Ci spiegano che è la nuova scuola, inaugurata proprio qualche giorno fa. Vien da riflettere che a casa nostra le scuole sono tutte mal tenute, non di rado in edifici fatiscenti, con pochi fondi a disposizione, e uno dei primi capitoli di taglio per gli assestamenti delle varie manovre finanziarie. Qui invece sulle scuole vengono investite le migliori energie della comunità. Parliamo con i professori, che ci spiegano come lavorano sotto il controllo di un pedagogo. Sgranano gli occhi quando gli diciamo che una classe da noi è composta anche da trenta alunni. Quindici è il numero massimo per l’insegnamento nelle scuole dei Sem Terra.
Il grado scolastico della “scuola in movimento” di Puricatù è equivalente delle nostre elementari e, tra qualche mese, anche delle medie. Ci sono aule da ginnastica e da disegno. Una biblioteca, una segreteria e una sala professori. Si svolgono anche corsi di recupero per gli adulti lavoratori che dopo un mese di lavoro hanno diritto ad una settimana di scuola. La conoscenza è libertà, si legge nei muri.
Sotto la scuola, i Sem Terra hanno costruito o sono in costruzione case per 210 famiglie per un totale tra le 8 o 9 cento persone. L’”acampamento” è grande 42 mila ettari solo in parte frutto dell’occupazione. Altri sono stati assegnati ai contadini tramite il ministero per la riforma agraria o confiscati al latifondista che ha subito una condanna per traffico di droga e schiavismo. Ogni famiglia ha il suo campo da coltivare. Altri campi sono collettivi e il ricavato destinato agli spazi comuni.
Sotto le bandiere rosse dell’Mst, grandi murales raffigurano contadini in lotta con il machete alzato. ”Terra libertada, sonho costruido”. Terra liberata, sogno costruito, si legge.


Abbecedario brasileiro

A come Açaì; non vi saprei dire a cosa somiglia questo frutto, Se ne ricavano succhi e gelati da arricchire con musli, fette di banane e fragole. Non lasciate il Brasile senza averlo assaggiato.
B come Birra; Original o Antarctica. Tenuta in frigo che la mantengono solo a un paio di grado sopra la temperatura in cui ghiaccia e servita in bicchieri freddi. Va giù che non te ne accorgi.
C come Copavi; la cooperativa di Sem Terra che ci ha accolto come fratelli. Occupano le terre dei latifondisti/schiavisti e le coltivano in comune. La Copavi fornisce lo zucchero che vendiamo nei nostri spazi sociali e che d’ora in poi userò sempre ed in esclusiva per addolcire il mio caffè. Fatelo anche voi!
D come Democrazia; partecipata e dal basso. Non te la regala nessuno. Tanto meno i partiti politici o qualsiasi governo, destra o sinistra che sia. Pare sia stata sequestrata da un sistema economico che sta macinando diritti e ambiente per farne merce. I brasiliani sono incazzati e per questo, e non per altro, scendono in piazza.
E come Educazione; da questo lato dell’Equatore non è un optional. Nella metro e nei bus, solitamente affollati come la linea 2 a Rialto, ci si spintona come in una partita di rugby ma tutti sorridono, chiedono scusa e si sorreggono a vicenda. Se chiedi una indicazione si fanno in quattro per aiutarti. Che bella gente!
F come Farfalle; da non credere quando son grosse quelle che abbiamo visto nel Paranà. I colombi gli fanno una pippa.
G come Guaranì; una delle nazioni indigene più agguerrite e determinate nel voler far riconoscere i loro diritti. Li trovi anche a due passi dal Maracanà, in una palazzina che è loro ma che per il governo è occupata abusivamente. Dopo 513 anni di massacri e di ingiustizie dicono anche loro Ya Basta!
H come Hostel; il posto migliore per dormire in Brasile. Colorati e arzigogolati, pieni di musica e di gente simpatica. Ci sono sempre libri, riviste, pappagallini che ti saltano in mano, ti danno i bacini e poi ti scagazzano sulla spalla. Non mancano mai spazi e terrazze per la socialità, la caipirinha e la cachaca.
I come Infradido; le chiamano “hawaiane” ed a Rio le calzano tutti. Ma a Rio puoi uscire di casa in mutande da bagno e in pareo. A San Paolo lo stesso, solo che trovi anche quelli che si mettono il cappotto. E stai là a domandarti se fa freddo o se fa caldo...
L come Lingua; se ci si vuole capire ci si capisce. Noi italiani partiamo l’itañol, loro il portuñol. Non ho mai fatto delle chiacchierate così lunghe con persone di cui non parlo la lingua!
M come Mercatão; mi verrebbe da scrivere alla Renzo Arbore “mercatao meravigliao”. Quello di San Paolo che abbiamo visitato questa mattina è una sinfonia di colori, sapori e odori. Il Brasile è il Paese della frutta ma ricordiamoci che non tutti ne hanno accesso. Chi vive nelle favele mangia - quando va bene - solo riso e fagioli che riempie di più e costa di meno.
N come Não carne; non è un Paese per vegetariani. La carne entra dappertutto. Persino nei croissant della mattina al posto della marmellata. Inutile spiegare che non vuoi carne nel tuo piatto. In un modo o nell’altro ci entra sempre.
O come Obrigado; che sta a significare “grazie”. L’unica parola che davvero serve per viaggiare in Brasile. E’ un popolo gentile e disponibile. Il loro “grazie” è davvero un “grazie”.
P come Preti; impossibile non provare simpatia per quelli della teologia della liberazione che si sbattono nelle favele o nelle occupazioni. Come in tutto il Sudamerica, anche in Brasile convivono due chiese separate: quella che benedice i dittatori e quella che sta dalla parte delle vittime e ne finisce vittima
Q come Quasi religioni; in Brasile prolifera un fottio di sette e confessioni religiose rare o più spesso uniche. Dalla chiesa universale dei santi di Cristo ai testimoni dell’apocalisse del settimo giorno. Il tutto mescolato con santerie e riti magici scaricati da internet. Ogni strada ha il suo tempio, spesso ricavato in uno scantinato. Un vero melting pot di credenze che ha tratto vigore dalla crisi che in questo Paese sta attraversano la chiesa. Anche Francesco non è molto amato. Non dimentichiamoci che prima di essere papa è argentino.
R come Riso; inevitabile trovarvelo sulla tavola quando ordinate una qualsiasi piatto. Va mangiato assieme agli altrettanto inevitabili fagioli neri. All’inizio l’accostamento fa schifo ma ci si abitua presto.
S come Samba; la suonano tutti. Nei locali eleganti dei quartieri alti come nei cortei dei movimenti. Per i brasiliani è come respirare e vivere. La scuola di Samba del tuo “barrio” più che uno spazio sociale è una fede.
T come Taxi; i tassisti brasiliani sono come tutti gli altri tassisti del mondo. Solo che questi usano sempre il tassametro e immancabilmente ti raccontano subito che suo nonno era italiano. Solitamente sono pure simpatici così che non gli rispondi mai: “E a me che me ne frega?”
U come Università; per la maggior parte sono private e la laurea è compresa con il costo di iscrizione. Quelle pubbliche invece sono di buon livello ma accedervi è difficile. Speriamo che non sia il futuro del nostro Paese.
V come Veloso; il grande cantautore ieri ha fatto una improvvisata alla sede dei Media Ninja per solidarizzare con i movimenti. Come già Chico Buarque che donò parte del ricavato delle sue canzoni ai Sem Terra, anche Caetano Veloso ha voluto ricordare a tutti che in Brasile non si può fare vera musica senza essere veri attivisti.
Z come Z; ultima lettera dell’alfabeto anche in Brasile.

Come avrete intuito dall’Abbecedario che mi sono inventato, in questi due ultimi due giorni di carovana non è successo granché. Dal Paranà abbiamo fatto ritorno a San Paolo. Dodici ore filate di viaggio cominciate su un pullman puzzolente con la frizione bruciata che non riusciva a tirare nelle salite. In attesa della manifestazione di domani, ne abbiamo approfittato per conoscere un po’ di più questa immensa città visitando il memoriale dell’America latina di Oscar Niemeyer, il museo do futbol, il mercato della frutta. A differenza di Rio che ti viene incontro con le sue strade, San Paolo è una città che la devi cercare sotto i grattacieli.


Derive destre

San Paolo
- “Dovete tener conto che noi siamo appena usciti da una feroce dittatura militare e il rischio di tornare indietro non è affatto così remoto come voi europei potreste pensare” mi racconta un signore che parla un buon inglese e regge un cartello con il logo del sindacato degli insegnanti e la scritta “Democrazia nella scuola”.
Il colpo di Stato che instarò la dittatura detta dei “gorilas” fu effettuato il 31 marzo 1964. Furono le grandi manifestazioni che si svolsero in particolare proprio a San Paolo esattamente vent’anni dopo, nell’84, a costringere i militari ad indire le prime elezioni democratiche. “Forse è per questo che i protagonisti di questa nuova stagione di rivolte sono, in particolare, i giovani e i giovanissimi - continua il sindacalista -. Loro non hanno ricordi di quel terribile periodo e quindi hanno meno paura di noi, over 40, di ricaderci dentro. Ma, le ripeto, dobbiamo sempre mettere in conto che esiste il rischio che a tirare le somme delle nostre rivendicazioni sia la destra. Il che ovviamente, non significa che non sia giusto mobilitarci. Solo che facciamo bene a stare attenti a non spianare la strada a latifondisti e industriali. Non sarebbe la prima volta nella nostra storia”.
Sulle strade di una San Paolo in mobilitazione in occasione della giornata di festa nazionale per ricordare dell’indipendenza dal Portogallo, il fiato della destra si sente sul collo. Al concentramento pomeridiano, destra e sinistra si trovano fianco a fianco, salvo poi partire in direzioni diverse e per diverse conclusioni: una sfilata tranquilla senza quasi cordoni di sicurezza per i primi; lacrimogeni, spari e botte dalla polizia per i secondi.
E va subito sottolineato come il concentramento comune, destra e sinistra insieme, inimmaginabile in Europa, sia un segno evidente di come la mobilitazione politica in Brasile corra ancora su binari confusi, se non addirittura equivoci. Lo dimostra l’ingenuità di molti attivisti che si coprono il volto richiamandosi ad una esotica suggestione di “Black Block” che non ha nulla a che vedere con quanto abbiamo conosciuto a Genova, salvo poi scoprirsi per farsi intervistare dai giornalisti. Lo dimostra anche le dinamiche delle forze dell’ordine che, come potete constatare nei filmati che abbiamo girato, non hanno la minima idea di come si tenga una piazza e anche le cariche, più che finalizzate ad uno sgombero o a un alleggerimento, si risolvono sempre in una serie di pestaggi improvvisi, violenti, gratuiti e pure inutili. Neppure gli obiettivi della polizia civile e di quella militare sono sempre gli stessi. Spesso, gli uni vengono sorpresi dai comportamenti degli altri, e capita di vedere i manipoli presi in contropiede o affumicati dai loro stessi lacrimogeni.
Per dirla proprio tutta, in Brasile gli stessi poliziotti non sanno bene da che parte stare. Su un muro di Rio, adiacente ad una caserma, un grande murale recitava: “La polizia civile appoggia le rivendicazioni dei manifestanti per un Paese più civile”. Anche questo è un segnale di come il Brasile sia diverso dall’Italia. Ed è anche il segnale inequivocabile che la destra si è aggrappata al movimento per cercare di cavalcarlo in chiave anti Lula e anti Dilma.
“E’ una operazione che hanno tentato utilizzando soprattutto la televisione Globo - mi spiega un ragazzo vestito di nero e con la maschera di Anonymus sollevata sopra la testa -. All’inizio siamo stati additati dai media come semplici teppisti. Ma poco dopo le cose sono cambiate. I giornali e le tv parlavano di noi come della migliore gioventù del Brasile giustamente indignata contro il Governo. Solo, inquadravano esclusivamente i cartelli che attaccavano la presidente Dilma o che ingiuriavano Lula. Allora abbiamo capito tutti che il pericolo di una deriva verso destra era reale. Ma non è certamente questo che il movimento, pur tra mille contraddizioni e confusioni, voleva quando è sceso in piazza contro l’aumento del prezzo del biglietto e per dire no agli stadi costruiti a spese dello stato sociale”.
Nello spezzone di destra del corteo, quello che verrà pacificamente scortato dalla polizia, non c’erano più di un centinaio di persone. Grandi bandiere contro la corruzione del Governo, cartelloni che chiedono la pena di morte e poteri speciali per l’esercito contro il narcotraffico, immagini di Lula con la scritta “ladrão”.
Un signore mi spiega in spagnolo che loro non si sentono né di destra né di sinistra ma che vogliono un cambiamento di Governo. “Siamo gente normale” mi assicura lui con un sorriso e io penso che non c’è da sbagliare a definirli di destra. Intanto, dall’altra parte della piazza si scatenano le cariche e volano i lacrimogeni. La polizia spara proiettili di gomma anche contro i giornalisti.
Per tutta le sera, le sirene continuano ad ululare nelle strade di San Paolo mentre gli elicotteri si abbassano sino a sfiorare i tetti dei grattacieli. Per noi è l’ultima notte brasiliana. Domani torniamo in Italia. E lo faremo con più domande di quando siamo partiti. Ma in fondo è proprio per questo che siamo partiti.


Potete scaricare il libro completo della carovana Brasil Em Movimento da questa pagina

Révolution et Renouveau. La radio comunitaria di Regueb

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Regueb, Tunisia centrale - Il nome esatto è Radio 3 R, dove le R stanno per Rivoluzione e Rinnovamento (Révolution et Renouveau). La terza R sta per Regueb che è un paesotto di poco più di 15 mila anime perso nel deserto, ad una quarantina di chilometri dalla più famosa Sidi Bouzid. Famosa quantomeno per aver acceso la miccia delle rivoluzioni arabe nel dicembre del 2011, quando l’ambulante Mohamed Bouazizi si suicidò per denunciare l’opprimente corruzione del regime del presidente Ben Alì. Siamo nel cuore della Tunisia. Qui i matrimoni sono ancora combinati dai genitori e la maggior parte della popolazione vive di una agricoltura di sussistenza. Un modo come un altro di dire che mangia quello che le offre la terra. Che senso abbia una radio comunitaria a Regueb ce lo spiega la giovane Debora Del Pistoia che da sei mesi lavora qui come cooperante del Cospe. “Regueb è un punto nevralgico della Tunisia. Qui si concentrano aspirazioni democratiche e rischi di derive integraliste. Nei mesi immediatamente successivi alla cacciata di Ben Alì sono sorti ben 63 partiti e un numero imprecisato di associazioni che testimoniano quanto sia sentito e allo stesso tempo tortuoso il percorso che porta alla democrazia. Una radio in grado di dare voce a tutti questi movimenti è, in questo senso, uno strumento indispensabile”.


Ma anche per Radio 3 R il percorso è tutt’altro che rettilineo. Sotto Ben Alì, in Tunisia si potevano ascoltare solo cinque radio; cinque voci di regime “appaltate” ai parenti della moglie di Ben Alì. Con la cacciata del tiranno, è stata aperta la strada alle radio private e sono state assegnate le licenze per 12 frequenze Fm di cui, 10 commerciali e solo 2 comunitarie. Le richieste però superavano la trentina. Il Governo tunisino, col cosiddetto decreto 116, ha demandato ad un organismo “indipendente” denominato Haica l’assegnazione di altre frequenze ma a tutt’oggi tale organismo non è ancora stato varato. La comunicazione via etere attira molti, troppi interessi.
“Radio R 3 si trova in un limbo legislativo - spiega Debora -. Non abbiamo potuto neppure fare richiesta di una frequenza perché allo stato attuale non esiste un organismo competente cui inoltrare questa richiesta. Per adesso trasmettiamo in streaming dal nostro sito. A breve saremmo in grado di trasmettere anche via etere ma aspettiamo di vedere come si evolve la situazione. Questo è un momento molto delicato per la Tunisia”. Rischio di attirare le ire dei salafiti? “Fino ad ora non abbiamo avuto problemi ma non ci nascondiamo che il rischio esiste. Tenete presente che Radio 3 R non è solo una radio: a questo progetto lavorano a titolo volontario 15 persone tra cui 10 donne. I nostri locali sono gli unici misti e qui le donne vengono da sole anche dopo il tramonto. Insomma, quando finalmente trasmetteremo via etere sarà un momento delicato”.
Radio 3 R è un progetto che il Cospe gestisce in partnership con l’Amisnet (Agenzia Multimediale di Informazione Sociale) e la tunisina Liberté & Développement. Fondamentale alla riuscita del progetto è l’apporto dato dalla tante associazioni locali che hanno già fatto di Radio 3 R la loro voce e che dai suoi microfoni trattano non solo questioni come la democrazia dal basso, i beni comuni, i diritti umani, la condizione femminile ma anche la cultura, il cinema e l’arte.
“Per noi questo è solo il primo passo di un progetto di più largo respiro - conclude Debora -. Il passo successivo sarà quello di mettere in rete le radio comunitarie di quattro Paesi come la Tunisia, l’Egitto, il Marocco e la Palestina. Quattro microfoni per parlare a tutti di pace, libertà e diritti”.

Libertè e democracie - diario di viaggio al Social Forum

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Da Porto Alegre a Tunisi, dall’Italia alla Tunisia
Tunisi, primo giorno di carovana - Da Porto Alegre a Tunisi, dall’Italia alla Tunisia. Nel nord est tira vento e neve e si prepara una pasqua al gelo. Qui invece è già primavera da un pezzo. La carovana di Ya Basta! è sbarcata questa mattina in quella Tunisia che nel dicembre del 2010 ha aperto la stagione delle rivoluzioni arabe, scacciano Ben Ali e la sua cricca. Oltre una settantina, tra quelli partiti oggi dal Marco Polo di Venezia e quelli già in loco, sono gli attivisti che si preparano a partecipare al World Social Forum. Il primo che si svolge in un Paese arabo. Ventidue gradi di temperatura sono già un buon benvenuto per i ragazzi provenienti dal nord est, in rappresentanza del Morion e del Rivolta di Venezia, della casa dei beni comuni di Treviso, dal Tpo di Bologna, dal Bruno di Trento. L’altro benvenuto è quello che accoglie tutti i partecipanti al Forum e che si legge nei mille striscioni appesi in tutte le strade di Tunisi. Dignidad, dignité, dignità, vi si legge in tutte le lingue del mondo.


Il nostro albergo, definirlo “spartano” è d’obbligo, si trova a La Goulette, termine che significa “collo di bottiglia”, e che indica la sottile striscia di terra che collega la città di Tunisi all’omonimo laguna. La mancanza di comodità è comunque colmata da una vista stupenda e dalla presenza - non trascurabile per dei movimentisti - di una buona connessione wifi. E se ci è permessa una parentesi “rosa,” stasera quella che si specchia nel acqua è una luna davvero magnifica. Una di quelle lune che si possono ammirare solo in Africa.
L’albergo è a quindici minuti di taxi dal campus universitario di El Manar dove si svolge il Social Forum. Ci arriviamo nel tardo pomeriggio appena in tempo per farci una idea delle enormi dimensioni degli spazi destinati agli stand delle associazioni e dei movimenti partecipanti, e del gran numero di “atelier” - laboratori - dove si svolgono in contemporanea le tantissime iniziative in programma. Temi che spaziano dai migranti ai diritti delle donne, dall’euromediterraneo allo sport popolare. Su Global daremo spazio agli approfondimenti su ciascuno di questi argomenti. Impossibile comunque non rimanere colpiti tanto dall’imponenza del Forum quanto dalle sue inevitabili contraddizioni. C’è lo stand dei profughi siriani che denunciano i crimini di Assad e quello di altri profughi siriani che inneggiano al dittatore come difensore della laicità dello Stato. C’è lo stand del Fronte Polisario e quello del Grande Marocco che accusa i ribelli sarawi di crimini. Tutto questo è il Social Forum di Tunisi. Ma adesso già è ora di tornare in albergo. Domani si entra nella mischia.

Cosa unisce Messico e Tunisia?
Tunisi, secondo giorno di carovana - Il campus universitario di El Manar è un oceano di tende colorate. “Hanno partecipato più associazioni a questo Social Forum che a quello di Porto Alegre - mi racconta soddisfatto un addetto all’ufficio stampa -. Quante? Più di un migliaio. E altre se ne stanno ancora aggiungendo. Oramai abbiamo esaurito gli spazi a disposizione e agli ultimi arrivati tocca accontentarsi di un pezzo di prato”. L’affluenza, sempre secondo le stime dell’organizzazione, si aggira tra le 60 e le 62 mila presenza contando solo i primi due giorni. Il campus è un melting pot infinito di lingue ed etnie. Sono arrivati da tutto il mondo. E come ci siano arrivati è già una storia da raccontare. “GCi hanno tenuto 5 ore fermi in frontiera - mi spiega un attivista algerino -. Non volevano farci passare con la scusa che il nostro bus non era autorizzato. Sono state le donne le prime a scendere e dire alla polizia che se il problema era il bus loro sarebbero andate a Tunisi a piedi. Solo allora hanno aperto le sbarre della dogana...”
Chi non può essere presente fisicamente ha mandato video ed interventi che vengono letti nei vari “atelier”, laboratori di approfondimento. E’ il caso di una associazione di donne messicane gemellata con una associazione di donne tunisine. Scusate l’assenza, mandano a dire, ma non avevano la “plata” per venire sino a qui. Cosa hanno in comune donne tunisine e messicane? I figli, emigrati e dispersi. Le donne messicane organizzano periodicamente carovane verso il nord portando le foto dei loro cari scomparsi. A chiunque incontrano,mostrano l’immagine e domandano se hanno visto il loro figlio. Una ricerca disperata che qualche volta viene anche coronata da successo. “Quest’anno - legge una donna tunisina - tre di noi hanno ritrovato il figlio, disperso a nord di Guadalajara”.
Tutto questo è Social Forum. Caroselli di musiche e di canti. Grandi campi di calcio dove si gioca a tutti gli sport del mondo secondo i criteri dello “sport alla rovescia”. Grandi immagini di martiri e bandiere di tutti i colori. Cortei spontanei anche di poche persone che scandiscono slogan per lo più incomprensibili. Tutto questo e tanto altro ancora. Un contenitori di utopie tutt’altro che utopiche che ha lo scopo dichiarato di “rendere necessario ciò che ora è solo possibile”.
Sotto quest’ottica, anche le contraddizioni che pure non mancano, assumono un significato diverso. Anche la radicale disorganizzazione - che in alcuni casi diventa un vero e proprio delirio tra incontri programmati in aule che si scoprono inesistenti e traduttori che non conoscono la lingua che devono tradurre - si trasforma in un pregio. Pur tra gli inevitabili rischi, su tutti l’autoreferenzialità, il Social Forum di Tunisi offre l’impressione di essere un Social Forum vero, slegato da logiche di governabilità e capace di offrire nuova spinta propulsiva ai movimenti.
La Tunisia del dopo rivolta si specchia perfettamente in questo Forum che ne restituisce la complessa situazione in bilico tra manovre di restaurazione e tanto generosi quanto ingenui slanci democratici.
Anche questo è Social Forum. Le strade di El Manar sono incroci di storie in cerca di qualcuno che le voglia ascoltare. Maha, una bella ragazza nera, mi mette in mano un volantino e mi domanda se a mio parere lei sia tunisina. Prima che mi inventi una risposta, mi racconta che lei è sì tunisina ma una tunisina nera. “Siamo il 15 per cento della popolazione eppure hai mai visto un nero in tv o al Governo? In Tunisia, siamo discriminati per il colore della nostra pelle”. Tarek ha combattuto nella Primavera e mi racconta della cacciata di Ben Alì. “In Tunisia oggi c’è una certa democrazia ma non sappiamo come gestirla. I partiti ci sono solo che, come dire... non sanno come lavorare. Ma il problema vero non è neppure questo. la nostra economia è dipendente dalla Francia. Se ne sono andati ma hanno imposto la coltivazione della vita da vino, del grano duro e l’estrazione dei fosfati. Tutta roba che prende la via del mare e che non lascia soldi in Tunisia. Un commercio diseguale che da noi crea solo sfruttamento. Allora la domanda è? Cosa significa per noi democrazia senza il controllo della nostra economia?” Gli chiedo se esiste il rischio di una deriva islamista a Tunisi. “Queste sono paranoie europee costruite apposta per spostare il problema reale su uno costruito per comodo - mi spiega -. Gruppi come i salafiti sono nati qui nei primi anni ’80 da persone che si illudevano di riconquistare una dignità perduta durante la colonizzazione e mai recuperata nella post colonizzazione. Ben Alì ha fatto piazza pulita di tutti loro. In nome della laicità dello Stato? Macché! Lo ha fatto solo per consolidare il suo potere personale! Oggi ci sono gruppi estremisti, è vero, ma quello che voi non volete capire è che ci sono moltissimi modi di essere musulmani. Vedi, la verità non è mai una sola. E’ per questo che la storia non si può né insegnare né imparare. La storia va solo continuamente ricercata”.

Chi trova il suo workshop, trova un tesoro!
Tunisi, terzo giorno di carovana - A due anni di distanza dalla cacciata di Ben Alì, i centri nevralgici dalla capitale sono ancora recintati dal filo spinato e guardati a vista dai soldati della Guardia Nazionale col fucile in mano. Ma le tensioni sociali che si respiravano durante la primavera sono oramai un ricordo. L’ultima volta che ero stato a Tunisi, nell’aprile del 2011, le strade erano invase da montagne di immondizie e gli scontri violenti tra le opposte fazioni erano quotidiani. Oggi, la caotica vita della metropoli scorre accanto agli autoblindi armati di mitraglia come se questi facessero parte del paesaggio. L’area del Campus di El Manar dove si svolge il Social Forum viene evitata tanto dalla polizia quanto dall’esercito. Solo davanti ai due ingressi del quartiere universitario troviamo qualche vigile urbano, indaffarato a dirimere il traffico selvaggio (a dir poco) ed a far circolare i grossi autobus e il fiume di agili taxi gialli che trasportano i partecipanti al Forum. Se da un lato il Governo tunisino non vede di buon occhio queste migliaia di attivisti, per lo più stranieri, che vengono a discorrere di laicità e di democrazia a casa loro, dall’altro è evidente che si sta impegnando per offrire al mondo l’idea di una Tunisia democratica e, soprattutto in chiave turistica, sicura. Domani, comunque, ci attende a prova del nove quando parteciperemo alla grande manifestazione che concluderà il Social Forum e che, non a caso si svolgerà in occasione della giornata della terra che ogni 30 marzo ricorda l’assassinio di sei palestinesi che protestavano contro l’esproprio delle loro terre da parte del Governo israeliano.
Per noi, questa di oggi è stata quindi l’ultima giornata trascorsa interamente al Campus. Le dirette in onda sul nostro sito, che abbiamo sperimentato per la prima volta proprio in questa occasione, sono andate molto bene e anche senza considerare le decine e decine di interviste video e gli articoli di approfondimento sui vari atelier raccolti dagli attivisti di Ya Basta!, potremmo ben vantarci di essere il social media italiano e probabilmente anche europeo che ha coperto in maniera più completa ed esaustiva il Forum tunisino. Rimandiamo la lettura degli altri articoli presenti sul sito per fare il punto dei vari workshop che si sono svolti nel pomeriggio. Qui notiamo solo come l’impressione di radicale disorganizzazione che abbiamo avuto quando abbiamo messo il piede nel Campus la prima volta fosse tutt’altro che sbagliata! Incontri programmati in sale inesistenti (o perlomeno noi non siamo riusciti a trovarle), cambi e spostamenti all’ultimo minuto con aggiunte a penna sul programma ufficiale. Vi racconto solo un episodio. Avrei voluto partecipare ad un atelier sui diritti dei migranti ma la sala A5 pareva depennata dall’elenco delle aule della facoltà di Scienze. Dopo una mezz’ora di inutile ricerca con un volenteroso ma poco efficace “volunteer organisation”, il ragazzo mi ha portato su un lungo corridoio dove si affacciavano decine di aule e mi ha detto sospirando: “Guardi, qui si stanno svolgendo workshop per tutti i gusti. Ne cerchi uno che le piace e segua quello!” Come si fa a non volergli bene?

Ya Basta in corteo sulle note di Bella Ciao
Tunisi, quarto giorno di carovana - Diciamocelo senza timore: eravamo lo spezzone più bello di tutto il corteo! Tutti serrati dietro due bandiere di Ya Basta! e lo striscione in tre lingue “Diritti, dignità e giustizia sociale nell’euromediterraneo”. Attorno una marea di gente, di slogan, di sigle e di bandiere. Alcune incomprensibili, altre quantomeno discutibili. Come quelle a favore del dittatore siriano Assad, tanto per fare un esempio. Ma anche tante bandiere della Palestina - non a caso oggi è l’anniversario della Giornata della Terra - e tanti striscioni come il nostro che chiedevano pace e libertà nel rispetto dei diritti. La manifestazione che ha chiuso il Social Forum di Tunisi si è portata dietro tutte le contraddizioni che hanno caratterizzato queste giornate di incontri e che hanno messo in evidenza tanto le grandi potenzialità quanto la complessità dei movimenti che agitano il mondo arabo. Contraddizioni ben evidenti anche nell’assemblea conclusiva, dove al momento di presentare il documento programmatico, si è scatenato un tafferuglio sul palco dei relatori tra attivisti sarawi e marocchini.
Ma nel complesso, la manifestazione svoltasi nel pomeriggio tra place 14 Janvier e place Pasteur, meno partecipata di quella che ha aperto il Social Forum, si è svolta senza eccessivi problemi, fatto salvo qualche tentativo di provocazione di gruppi salafiti subito sedato dalla polizia con la collaudata tecnica dell’asso di bastoni. Non ci hanno fatto mancare neppure qualche scaramuccia tra sindacati e rappresentanti del partito di governo, proprio sotto l’ambasciata palestinese dove abbiamo concluso in bellezza la manifestazione.
Il nostro, scrivevamo in apertura, è stato lo spezzone più bello di tutto il corteo. Non siamo noi a dirlo ma le decine e decine di tunisini che si sono accodati spontaneamente dietro alle bandiere di Ya Basta! e che ci chiedevano di scandire slogan e intonare canzoni. Ci han chiesto “Bella ciao” e li abbiamo accontentati senza problemi. Ci hanno chiesto “Bandiera rossa” e qui qualche problema lo abbiamo avuto. Abbiamo scantonato proponendo un “ever greeen” di Raffaella Carrà. Idolatrata da queste parti.

Tempo di bilanci
Tunisi, quinto giorno di carovana - Carovanieri in libera uscita, oggi. Chiuso il Social Forum, un ristretto gruppo di attivisti è partito la mattina buon’ora per il sud per riprendere il lavoro nei vari progetti. Il grosso della truppa è rimasto a Tunisi e si è concessa una giornata di riposo. A cinque minuti dal nostro hotel, parte uno scassato trenino che collega Tunisi nord con gli scavi archeologici di Cartagine e il tranquillo villaggio di Sidi Bou con le sue caratteristiche case bianche e azzurre. Il secondo soprattutto, è un luogo spiccatamente turistico ma che vale comunque una visita, incastonato come è in un mare blu cobalto e circondato da colline rivestite di grandi fiori multicolori. Sul trenino, i ragazzi locali, questa mattina particolarmente su di giri per il derby calcistico che si sarebbe giocato nel pomeriggio, ci hanno insegnato come basti infilare un piede tra le porte mentre il treno sta partendo, per impedirne la chiusura e viaggiare poi con le porte spalancate attaccati alla carrozzeria esterna. Il che, secondo loro, è un gran divertimento.
Carovanieri in libera uscita, quindi, ciascuno seguendo l’ispirazione dettata dalle proprie inclinazioni, siano esse del genere “vacanze culturali” o “spiaggia e narghilè”. Domani, si parte per raggiungere i compagni al sud. La prima meta sarà Sidi Bouzid.
Ma adesso è venuto il momento di tirare un primo breve bilancio del Social Forum di Tunisi. Diciamo subito che chi si aspettava un forum dalle proposte forti, come è stato quello di porto Alegre, è rimasto deluso. D’altra parte, abbiamo già scritto che le grandi battaglie non passano più per appuntamenti di questo tipo. Non è stato neppure un forum di facciata, una passerella per associazioni governative e ong incapaci di proporre vere alternative alla globalizzazione, come è stato per quello di Dakar. Grazie anche alla caotica situazione politica tunisina, il Social Forum di Tunisi ha aperto i battenti a tante organizzazioni che hanno portato all’interno dei dibattiti tante contraddizioni ma anche tante potenzialità. In poche parole, se è vero che erano presenti nostalgici di Saddam Hussein e associazioni siriane filo Assad è anche vero che abbiamo incontrato tanti attivisti che lottano contro il regime, ben sapendo delle difficoltà di costruire in un auspicabile futuro post guerra, un percorso democratico al fianco delle formazioni integraliste oggi loro alleate contro il dittatore. Contraddizioni e potenzialità che sono presenti in tutti i livelli sociali di questa sponda di Euromeditteraneo.
Piuttosto vale la pena di sottolineare le assenze di questo forum. In quanto a quelle geografiche, abbiamo notato l’assenza di tanti movimenti sudamericani che sono state l’anima pulsante dei primi forum sociali. Ma i motivi di tale assenza fondamentalmente sono da ricercarsi nella lontananza e nel costo del viaggio. Per quanto riguarda quelle tematiche, se tanto spazio è stato dato alla questione femminile, non abbiamo trovato un solo stand, un solo atelier (perlomeno non non ne abbiamo visti) dedicati all’orientamento sessuale. Per il mondo arabo questi temi continuano ad essere tabù.
Ma a conti fatti, il Social Forum è stato comunque una grande vetrina dei movimenti. Le interviste, i dati, le mail, i contatti, gli articoli, le informazioni che abbiamo recuperato saranno utili per costruire battaglie future capaci di suscitare una eco anche dall’altra parte del mare perché anche dall’altra parte del mare ci sono attivisti e associazioni che lottano per quell’ “otro mundo” che è sempre più possibile.

Verso sud
Sidi Bouzid, sesto giorno di carovana - Bastano due ore di autobus per lasciarci alle spalle le verdi colline di Tunisi dipinte di fiori gialli e viola. Man mano che la carovana procede verso sud, del mare blu cobalto rimane solo il ricordo. Le colline si addolciscono sino a diventare un deserto percorso da greggi di pecore ed interrotto, nelle vicinanze dei rari centri abitati, da sterminate coltivazioni di ulivi separate da barriere di fichi d’india.
Abbiamo lasciato La Guoulette in tarda mattinata. Dopo una pausa a Kairquam, città sacra dell’Islam dalla grande moschea e dalle strette vie affollate di artigiani e commercianti, ci siamo diretti a Sidi Buazid, la prima meta della nostra carovana. Ci arriviamo verso le 6 di sera e subito ci attende l’incontro con gli amici tunisini del locale centro culturale dove alcuni attivisti di Ya Basta! in collaborazione con Un Ponte Per stanno lavorando per formare degli operatori di media center. La regione, ci ha spiegato un portavoce dell’Unione Laureati Disoccupati, è una delle più emarginate del Paese e la rivoluzione non ha portato miglioramenti in questo senso. Eppure, proprio su queste strade, si è accesa la miccia della Primavera araba, quando nel dicembre del 2010 il giovane Mohamed Bouazizi si è suicidato per protestare contro le angherie del regime. Una sua grande foto campeggia nella piazza centrale della cittadina, accanto ad un monumento che rappresenta il suo carretto di ambulante. In questa città circondata dal deserto, le sommosse sono state represse in modo particolarmente violento e la repressione della polizia ha causato ben 10 vittime. Oggi, Sidi Bouzid è una cittadina di 40 mila abitanti, dai grandi viali contornati da alberi potati a squadra, proprio come le sue basse case bianche. La disoccupazione colpisce particolarmente le donne, molte delle quali – nonostante il titolo di studio – sono costrette a lavorare nei campi per un compenso di 4 euro al giorno, e ad accettare un trattamento da “caporalato” e a pagarsi addirittura il trasporto al lavoro. La presenza integralista qui non è, in percentuale, particolarmente significativa ma rimane comunque pesante perché coagula la disperazione dei giovani e può contare sul circuito di denaro e di organizzazione legato alle moschee. “I sefarditi reclutano tra i ragazzi più giovani, meno istruiti e più disperati - mi racconta in responsabile del Centro Culturale -. Nelle moschee vengono indottrinati su falso islam ed imparano a leggere il Corano in maniera acritica. Io credo che la cultura sia il mezzo più efficace per contrastare questa pericolosa deriva retrogada. Ed è per questo che, progetti come quelli che ci state aiutando a portare avanti voi, rappresentano l’arma più efficace per contrastare questa deriva”.
La situazione a Sidi Buazid è tesa. Per non compromettere tutto il lavoro che i formatori di Ya Basta! e di Un Ponte Per stanno svolgendo nella città, e per non offrire spazio a provocazioni che alla fin fine danneggerebbero solo i nostri amici tunisini, abbiamo deciso di non uscire dal centro culturale se non per recarci all’ostello dove passeremo la notte in camerate rigorosamente separate tra uomini e donne. Anche per la cena, usciremo alternandoci a gruppi. Non c’è pericolo di sbagliare ristorante. Ce n’è uno solo in tutta la città!

Quattro chiacchiere al narghilè
Regueb, settimo giorno di carovana - A quaranta chilometri di niente da Sidi Bouzid, si trova il villaggio di Regueb. Uno di quei posti che ci puoi solo capitare o per sbaglio o con Ya Basta! Poco più di 15 mila anime perse nel deserto di una regione in cui la maggior parte della popolazione campa di una semplice agricoltura di sussistenza.
La carovana ci è arrivata in tarda mattinata con l’obiettivo di incontrare gli attivisti di Radio 3 R - tre R che stano per Regueb, Révolution e Renouveau (rivoluzione e rinnovamento) - e intervistare i portavoce di alcune associazioni che lavorano nel territorio come l’Union Diplomé Chomeur (unione laureati disoccupati) e l’Associazion Liberté & Développement. Rimandiamo agli articoli specifici e ai video che abbiamo realizzato, il resoconto di queste attività.
Ma al di fuori degli incontri ufficiali, per noi carovanieri è stata l’ennesima occasione per parlare non solo con gli attivisti politici ma anche con tanta gente del luogo, curiosi di sapere di noi tanto quanto noi eravamo curiosi di sapere di loro. Il mezzo comunicativo per eccellenza, sotto queste latitudini, è senza dubbio il narghilè. Altri costumi, altri tempi, altri cieli. Nel Magreb non è considerata una perdita di tempo starsene spaparanzati dietro un tavolino e chiacchierare scambiandosi il tubo del narghilè, sorseggiando un tè alla mente o alle mandorle. Accade anche che il barista si sieda vicino al suo ospite europeo e cominci a chiedere della sua vita, mentre racconta la sua. Ho conosciuto così Abidi. “A Regueb non si vive male - mi spiega -. Per lo più ci sono persone che lavorano nel terziario. La povertà la trovi più che altro nelle campagne, dove vive la maggior parte della popolazione della regione. Coltivano la terra o allevano le greggi. Ma ne ricavano appena per mangiare. Ci sono anche possedimenti più grandi che non appartengono però a gente del luogo. Qui lavorano le donne”. Perché le donne? “Perché le pagano meno e sono sfruttate di più. Si ammalano respirando i veleni dell’agricoltura, in particolare le porcherie che buttano nelle viti. Alcune sono morte, altre trasmettono le malattie ai figli”. Nessuno si oppone? “Le donne no. Si ritengono fortunate se lavorano. C’è molta rassegnazione ed ignoranza. Studiare, d’altra parte, è costosissimo e pochi se lo possono permettere. Se aggiungi che poi non trovi occupazione nemmeno col titolo di studio...”. Cosa è cambiato con la cacciata di Ben Alì? “Beh, si sta senz’altro meglio. Qui comandava un cugino della moglie ed era una vera disgrazia. Rubava tutto. Adesso c’è la democrazia. Ma l’economia è sempre nella mani degli stessi di prima e su questo fronte non è cambiato niente”. L’integralismo? “Vedi, chi come me lavora le sue ore al giorno, quando va a casa non ha voglia di occuparsi di religione. I salafiti reclutano tra i giovani disoccupati. Ragazzi disperati che non hanno futuro certo. Si sentono disgraziati e derubati perché non hanno né lavoro né soldi per sposarsi e uscire da casa. Da noi è considerata una cosa umiliante. Tieni presente che da noi il matrimonio è ancora combinato dai genitori ed è una cosa costosissima che non tutti possono permettersi. Questi ragazzi sono ricattabili e quindi facili prede dell’integralismo“. Il futuro? “Guarda verso l’orizzonte! E’ come quella tempesta di sabbia che si sta alzando. Potrebbe quietarsi all’improvviso come infuriarsi e spazzare tutto”.

Villaggi resistenti
Menzel Bouzaiene, ottavo e ultimo giorno di carovana - Per raggiungere Menzel Bouzaiene, la prima città che si è ribellata al regime di Ben Alì, bisogna scendere ancora più a sud.
A metà mattinata, lasciamo Sidi Bouzid e il suo sgangherato ostello che definire spartano è dargli eccessivo credito, senza troppi rimpianti. Ricorderemo le due serate trascorse a far assemblea nelle scale comuni perché uscire, come abbiamo già spiegato, ci era stato sconsigliato, le camerate e i piani separati per genere, le estenuanti battaglie con una wifi particolarmente esasperante e gli accesi confronti con gli altri ospiti tunisino dell’ostello. A questo proposito, in un altro articolo racconteremo di un incontro con le donne tunisine impegnate nel cambiamento.
Dopo settanta chilometri di deserto intervallato da coltivazioni di ulivi, raggiungiamo Menzel Bouzaiene, un villaggio di neppure seimila anime e di poche case quadrate e basse, al quale neppure le guide di viaggio più avventurose hanno mai dedicato una nota. Eppure, se battete il suo nome su Google, vi comparirà nello schermo un bel numero di video You Tube che immortalano i violentissimi scontri che qui si sono svolti durante la Primavera. “Quando è cominciata la rivoluzione - ci spiega Mohamed un attivista di Accun - il regime ha cercato di impedire che si diffondessero le immagini e le riprese delle battaglie. Per fortuna mio fratello gestisce un internet point e lo ha messo a disposizione di tutti, spiegando loro come aggirare la censura con i proxy”.
Menzel Bouzaiene è tagliato in due da una lunga linea ferroviaria riservata esclusivamente ai treni merci. Lunghi convogli arrugginiti sferragliano in mezzo al paese per trasportare carichi di fosfati dalle miniere ai porti mediterranei dove vengono stivati per raggiungere le coste di Francia. I sassi su cui poggiano le traversine sono stati le armi con le quali i manifestanti di Menzel Bouzaiene hanno respinto le violente cariche della polizia. “Quando abbiamo saputo della morte di Mohamed Bouazizi, siamo scesi tutti in piazza - continua l’attivista di Accun -. Quando la polizia si è resa conto che non poteva disperderci con le cariche ha sparato e ha ucciso due di noi. Menzel Bouzaiene ha pagato col sangue la rivoluzione. Anche il primo morto nella casbah di Tunisi era del nostro villaggio. I ragazzi da qui partivano a piedi per raggiungere la capitale e dare man forte alla rivolta”.
Ya Basta! sta collaborando con i ragazzi di Menzel Bouzaiene per far vivere un media center. La struttura è già pronta e sorge proprio a ridosso della ferrovia. Adesso si tratta solo di potenziare il parco informatico. “Qui possono venire tutti - continua Mohamed -. Siamo aperti alle donne come ai disoccupati. Pari opportunità vuole dire anche dare la possibilità a tutti di accedere alla rete. Noi di Menzel Bouzaiene sappiamo bene come è importante conoscere e far conoscere quando accade!”
Oggi il villaggio è ancora senza delegato del governo (come dire il sindaco). La polizia è tornata ma non esce dalle caserme e si limita alla normale amministrazione. Molti attivisti però sono ancora in carcere e chi è ancora a piede libero sa bene che rischia la cattura se esce dal villaggio. “Ci sono comunque aggressioni continue e tentativi di arresto. Ieri sera due persone hanno cercato di accoltellare mio fratello. Cosa vi devo dire? Ben Alì è caduto ma per il resto tutto è rimasto come prima. Gli slogan che gridavamo durante la Primavera per chiedere lavoro, uguaglianza e dignità sono gli stessi che dobbiamo gridare ora”.
Dopo aver aver abbracciato i compagni di Accun e i nostri che si fermano a Sidi Bouzid per portare avanti i progetti che vi abbiamo descritto, lasciamo Menzel Bouzaiene, ultima tappa della prima carovana di Ya Basta! nel Maghreb.
C’è appena il tempo di visitare un villaggio berbero che troviamo sulla strada. Ampie grotte scavate nella montagna dove i pastori sostavano durante la transumanza. Alcuni ragazzini ci vengono incontro sventolando la bandiera berbera e ne approfittiamo per scambiare due parole e regalare loro una bandiera di Ya Basta!
Sul pulman che si è messo in moto per raggiungere Tunisi, ci attende una simpatica sorpresa. I ragazzino berberi ci hanno aspettato sui loro motorini e ci scortano per un paio di chilometri. Sorridono e sventolano le nostre due bandiere legate assieme.

Bulgaria, continua la mobilitazione in piazza

Le dimissioni del premier, Boiko Borisov, e l’annuncio delle elezioni anticipate non hanno placato le proteste in Bulgaria. Le piazze di Sofia e delle maggiori città del Paese continuano ad essere presidiate giorno e notte da migliaia di manifestanti che si rifiutano di smobilitare, che hanno accolto con fischi il tentativo del capo dello Stato, Rossen Plevneliev, di calmare gli animi e che rispondono con pietre, bastoni e bottiglie alle cariche della polizia volte a ripristinare l’ordine.
Solo martedì scorso, una delle giornate in cui la protesta ha assunto contorni maggiormente violenti, si sono registrati 25 feriti, mentre a Varna ed a Veliko Tarnovo due manifestanti si sono dati fuoco. Una protesta, questa bulgara, che dura da oltre due settimane e che dopo aver costretto alle dimissioni l’impopolare ministro delle finanze ha travolto tutto il Governo di Borisov, primo ministro e leader dello schieramento di centro destra vincitore delle ultime elezioni. Boiko Borisov, eletto nel 2009, aveva portato avanti una politica di “risanamento economico” tanto benedetta dalla Unione Europea quanto maledetta dai cittadini. Vai a spiegare a quanti non riescono a coniugare il pranzo con la cena che grazie ai tagli del welfare, il debito pubblico è calato al 19,5 per cento del pil! Un “successo” pagato con una macelleria sociale senza precedenti, disastri ambientali cui non si potrà più porre rimedio ed una corruzione oramai istituzionalizzata.


Ma la protesta generalizzata esplosa nelle piazze di Bulgaria non ha denunciato solo il carovita e la corruzione dilagante tra i soliti noti dell’oligarchia politica - composta dagli stessi personaggi che ieri erano filosovietici e oggi sono tutti convinti liberisti. Sotto accusa sta tutta la politica di austerity che ha portato povertà e disperazione, e svenduto il Paese alle multinazionali straniere. In particolare, sotto accusa, sono i gruppi economici che hanno “acquistato” la produzione dell’energia elettrica causando un esponenziale aumento delle bollette. Questo infatti, è indicato da molti analisti come la causa scatenante la mobilitazione che è stata chiamata anche la “rivolta delle bollette”.
Quello che va sottolineato è che la protesta dei bulgari non è a favore di questo o quello schieramento politico. Tutti i tentativi dei partiti all’opposizione di guidare o anche di inserirsi nelle mobilitazioni sono stati respinti con forza dai manifestanti che accusano tutti i partiti, indistintamente, di aver gettato sul lastrico la popolazione. La protesta che non accenna a calmarsi è guidata da associazioni, sindacati di base, gruppi di cittadini appartenenti ad ogni categoria sociale: impiegati statali, professori, studenti, contadini e anche appartenenti ai sindacati di polizia.
Lo slogan più gettonato è “Basta con la miseria e la corruzione”, seguito da “Basta con i monopoli” e “Fuori i partiti, basta con la mafia del potere”.
Sostengono, i manifestanti, di avere tre nemici: i partiti, i politici e le multinazionali straniere. Ma a voler fare una ulteriore sintesi, il nemico è uno solo: quella insostenibile politica bancaria di “risanamento economico” che ha già macellato la Grecia e che, a partire dai Paesi più poveri come la Bulgaria, sta mietendo uno alla volta tutti gli Stati europei.

L'Ungheria tra nazismo e popolismo

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E’ notte fonda a Budapest. E la premesse c’erano tutte. Gli scandali e il malgoverno che hanno travolto il partito socialista al potere da due legislature, la crisi economica che ha devastato soprattutto le categorie più deboli, il rafforzarsi di partiti di destra e di formazioni dichiaratamente naziste e xenofobe. Nessuno si è sorpreso quando, l’11 aprile 2010, il partito conservatore Fidesz ha vinto le elezioni e il suo leader Viktor Orbàn ha riconquistato la poltrona di primo ministro, carica che aveva già coperto tra il ’98 e il 2002. Piuttosto, quello che ha sorpreso anche i più attenti analisti politici è la valanga di consensi alle destre usciti dalle urne: il Fidezs ha ottenuto il 53% dei voti che gli consentono non solo di governare senza sottostare a mediazioni con partiti più moderati come era avvenuto in passato, ma anche di avere i numeri per mettere mano alla Costituzione. Il primo passo è stato il cambiamento del nome dello Stato che da “Repubblica Ungherese” è stato trasformato in un più nazionalistico “Ungheria”. Per Orbàn evidentemente, il termine “Ungheria” da scandire in piedi e con la mano nel cuore, basta e avanza. Cose come “repubblica” o “democrazia” sono aggettivi di secondaria importanza rispetto all’orgoglio nazionalistico. Orgoglio che fa si che qualsiasi manifestazione di protesta venga etichettata, e di conseguenza duramente repressa, come antipatriotica. Anche l’opposizione non scherza, nel parlamento di Budapest. Se si trascura il 7,5 per cento ottenuto dai Verdi, gli unici a tentare di difendere quel che rimane dei diritti civili - una disperata resistenza che pagano quotidianamente con arresti, botte e persecuzioni - va registrato il successo ottenuto dal partito Jobbik (salito dal 2% nel 2006 al 16,7% nelle ultime elezioni) che non fa mistero ma un vanto di richiamarsi direttamente all’ideologia nazista. Tanto è vero che il suo leader, il 31enne Gabor Vona, ha recentemente avanzato una proposta di legge volta a schedare tutti i cittadini di origine ebraica. Un provvedimento giustificato naturalmente con lo scopo di “garantire la loro sicurezza”. Discorsi già sentiti e che fanno correre brividi lungo la schiena. Impossibile non ripensare a quando scriveva Primo Levi: “Inutile chiederci perché. E’ successo. Succederà ancora”.
I neo nazisti di Jobbik, nei fatti, hanno la funzione di appoggiare dall’esterno il governo di Viktor Orbàn, spingendolo sempre più a destra. Gli effetti si sono già fatti sentire. Tutti i giornali di opposizione e anche quelli che semplicemente hanno rifiutato il ruolo di mere passaveline dei comunicati del regime hanno chiuso i battenti. Lo storico Nèpszava ha pubblica la sua ultima edizione riportando una sola frase tradotta nelle 23 lingue europea: “la libertà di stampa in Ungheria è finita". Una disperata richiesta di aiuto alla comunità internazionale che è stata deliberatamente ignorata.


Che aria tiri in quella che sino a poco tempo fa era la Repubblica Ungherese, ce lo hanno spiegato chiaramente i jazzisti dello splendido Szoke Szabolc Quartet che girano l’Europa per far conoscere tanto la loro musica quanto la situazione ungherese. Situazione che trova assai poco eco nei nostri media, tradizionalmente poco attenti a quando accade al di là delle Alpi, anche in Paesi come l’Ungheria che dista non più di tre ore d’auto dalla frontiera.
“Ed è una vergogna perché le formazioni di estrema destra mantengono contatti molto stretti tra di loro - ha spiegato in occasione di un incontro al laboratorio Morion di Venezia, domenica 20 gennaio, Gabor Juhàsz, chitarrista del gruppo -. Sappiamo che qualche tempo fa diversi autobus carichi di nazisti ungheresi si sono recati proprio nella vostra regione per partecipare ad un concerto organizzato dal Veneto Fronte Skinhead. La cosa che più mi sorprende è che è stato fatto tutto alla luce del giorno. La polizia si è limitata a controllare che i mezzi fossero parcheggiati nei posti assegnati mentre dal palco si urlavano inni alla violenza, all’odio etnico e a Hitler. Ma la vostra Costituzione non vieta forse la propaganda dell’ideologia fascista?”
Juhasz, intervistato da Vilma Mazza dell’associazione Ya Basta, ha raccontato le persecuzioni cui sono sottoposti i musicisti e, più generalmente, gli scrittori, gli artisti e tutte le persone che fanno cultura in Ungheria. “Musei, fondazioni, teatri sono stati o chiusi o assegnati a servi del regime che li usano solo a fini propagandistici. La musica però non ha confini e un artista ama sempre la libertà perché sa che senza libertà non si può suonare né produrre cultura. Noi inoltre siamo musicisti jazz che è una forma musicale per sua natura meticcia e transnazionale. Questo è il motivo per cui dobbiamo suonare all’estero. Al regime piacciono più gli inni nazionali e detesta una musica come la nostra che essenzialmente vuol dire libertà e interculturalità”.
Non è solo la cultura a fare le spese della deriva fascista ungherese. Con la nuova Costituzione la magistratura è stata mesa sotto il diretto controllo dell’esecutivo, alla faccia di quella divisione dei poteri che sta alla base delle repubbliche moderne (non è un caso quindi che, come abbiamo detto, il Governo abbia rinunciato al termine “repubblica” davanti ad “Ungheria”). La persecuzione razziale ha colpito soprattutto i rom che sono stati tutti schedati come appartenenti ad una etnia “non ungherese” e che, per lavorare, hanno come unica alternativa inserirsi in un programma di “lavori socialmente utili”. In cambio di uno stipendio da fame, vengono spostati e concentrati in campi di lavoro sorvegliati a vista da poliziotti armati. Le differenza con un lager di concentramento nazista non sono poi molte. Per adesso.
Un altro punto forte del programma elettorale di Orbàn, era quello di pubblicizzare le banche sotto lo slogan che i soldi degli ungheresi sono degli ungheresi. Come immaginerete, si trattava solo di un patetico tentativo a fine populista. Fare le scarpe alle banche non è facile come ghettizzare i rom o schedare gli ebrei. E’ bastata un’alzata di ciglio della Banca Mondiale per far abortire ignominiosamente tutto il progetto. Anche in Ungheria, come in Italia e nel resto del mondo, si potranno anche randellare i diritti e i lavoratori, ma guai a toccare il capitale. Una scelta questa che ha ottenuto l’immediato e caloroso plauso del Governo Cinese. Il ministro dell’Industria di Pechino, il compagno Miao Wei, ha recentemente dichiarato che il suo Paese investirà forti somme nello “sviluppo economico” dell’Ungheria in quanto, ha affermato testualmente, in questo Paese, unico in Europa, la manodopera costa poco e i lavoratori - bontà loro - accampano pochi diritti. Evviva il comunismo e la libertà!
Ecco quanto accade in Ungheria. Un Paese che, come per la Bosnia, si trova ad un tiro di schioppo dall’Italia, ma che nell’opinione comune costruita dai nostri mass media, sembra situato in un altro e lontano continente. Eppure non dovrebbe essere difficile rendersi conto che, in questo mondo globalizzato, quanto accade dietro la porta di casa nostra è come se accadesse a casa nostra. E non solo per una pur imprescindibile questione di giustizia universale che, come ci ha spiegato un tipo chiamato Ernesto Guevara, ci dovrebbe spingere a sentire ogni prepotenza compiuta in un qualsiasi angolo del mondo come se fosse stata fatta contro di noi. Il problema è anche che ogni attacco ai diritti fondamentali che avviene in un qualsiasi paese del Mondo si traduce prima o poi in un attacco simile anche ai nostri diritti fondamentali. Non possiamo più illuderci di poter vivere liberi in un mondo di schiavi.
“Se l’Ungheria perde libertà - ha concluso Vilma Mazza - anche l’Europa perde libertà”.

In Bosnia vince il genocidio

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Ancora, la storia non ha insegnato niente. Le elezioni amministrative di domenica scorsa in Bosnia Erzegovina hanno registrato la netta affermazione dei partiti etnici di destra. Nelle Repubblica Srpska, l'Alleanza Socialdemocratica (Snds) di Milorad Dodik al governo del Paese, è riuscita a mantenere per un pugno di voti solo Banja Luka ma dovuto abdicare in circa metà dei municipi dove governava a favore dei candidati dell‘Sds, il partito nazionalista filo serbo, che durante il conflitto era guidato da Radovan Karadzić.
Speculare il risultato nella Federazione Croato-Musulmana che con la Repubblica Srpska, compone la Bosnia Erzegovina. Anche in casa musulmana, gli elettori hanno premiato i partiti della destra etnica. Il partito di ispirazione islamica Azione democratica (Sda), ha trionfato in 38 dei 78 Comuni della Federazione chiamati al voto. Stesso discorso nei territori croati, dove i nazionalisti dell’Unione Democratica (Hdz), pur con percentuali leggermente più basse rispetto al passato, hanno confermato di essere la maggioranza del paese. Tirando due somme sugli ultimi dati forniti della commissione elettorale governativa, su 138 dei 141 Comuni fino ad ora scrutinati in tutto il Paese, le tre destre etniche hanno conquistato il 55% dei voti. La Sda musulmana ha conquistato 34 sindaci, la SDS serba 27, la HDZ croata 14. Come dire che i serbi hanno votato per i serbi, i musulmani per i musulmani e i croati per i croati. Pressapoco lo stesso risultato ottenuto nelle prime elezioni libere degli anni ’90. Poco dopo il dissolvimento della Jugoslavia. Poco prima della guerra civile.


Un passo indietro di oltre vent’anni.
Grandi sconfitti i due partiti di governo, i Socialdemocratici Multietnici (Sdp) - la sola grande formazione politica transnazionale - e l'Alleanza Socialdemocratica Serba di ispirazione putiniana che ha pagato le spese di una politica economica disastrosa basata su privatizzazioni e tagli al welfare. Val la pena di sottolineare il risultato a sorpresa del “Berlusconi di Bosnia”, Fahrudin Radončić, magnate dell’informazione, che è riuscito a piazzare un suo sindaco nella Sarajevo federale, pur se nel resto del Paese il suo partito si attesta su percentuali molto basse.
Buona nel complesso l’affluenza al voto che si attesta sul 56% per quanto riguarda la Federazione e sul 59% per la Republika Srpsk. In entrambi i casi, di un paio di punti sopra la percentuale delle precedenti consultazioni.
Male invece le liste civiche e di movimento, come gli anti-nazionalisti di Naša Stranka, il partito fondato dal regista Danis Tanović. Cocente sconfitta anche per Zdravko Krsmanović, oramai ex sindaco di Foča, che aveva cercato di portare avanti un coraggioso programma di riconciliazione nazionale in questa cittadina che fu teatro di atroci crimini di guerra e una delle roccaforti di un nazionalismo di ispirazione fascista.
Capitolo a parte per Srebrenica, che non caso è uno dei tre Comuni dove il risultato non è ancora stato ufficializzato. I due candidati, Ćamil Dukarović sindaco uscente musulmano e la sfidante serba Vesna Kočević, combattono sul filo di poche decine di voti.
Qualche casa in croce incastrata in una gola stretta e profonda, con i muri ancora scrostati dalle pallottole, due chiese dove sventola l’aquila serba e due moschee dove gli fa eco la mezzaluna islamica. Srebrenica è tutta qua. Le sue amministrative si meriterebbero appena due righe sul giornale locale se non fosse che durante la guerra il paese è stato teatro di uno dei più atroci genocidi della recente storia europea. Genocidio che i partiti nazionalisti serbi si sono sempre rifiutati di ammettere. La stessa candidata Vesna Kočević, nell’inutile tentativo di smorzare lo scandalo di una sua possibile elezione, ha più volte dichiarato che lei non intende alimentare il “negazionismo”. Anzi, lei non ha difficoltà ad ammettere che durante il conflitto a Srebrenica “furono perpetuati da entrambe le parti molti crimini”. Crimini appunto. E “da entrambe le parti”. Ma definire “crimine” il massacro premeditato di oltre 8 mila civili musulmani, disarmati ed innocenti, è come affermare che il mostro di Firenze era un mattacchione.
Sarà lei, una serba nazionalista, la prossima sindaca del paese dove, per raggiungerlo, bisogna attraversare la spianata coperta di tombe islamiche del memoriale di Potočari?
A cinque giorni dal voto, ancora non ci sono certezze. Lo soglio prosegue nella massima lentezza. Una lentezza che non può non alimentare qualche sospetto.
Srebrenica non ha mai avuto un sindaco serbo. Prima del genocidio, la comunità musulmana era l’80% della popolazione e non aveva difficoltà ad esprimere un suo sindaco. Ma oggi la maggior parte della popolazione rimasta è di etnia serba. I musulmani sopravvissuti ai massacri sono scappati in paesi controllati dalla Federazione.
Neanche a farlo apposta, una recente legge nazionale consente il voto solo ai residenti registrati nelle locali liste elettorali. I musulmani della diaspora sono stati quindi tagliati tutti fuori dal voto. “E’ come se avesse vinto il genocidio - ha commentato Ćamil Dukarović -. Prima ci hanno massacrati, poi buttati fuori dalle nostre terre e ora ci impediscono anche di votare”. Durante la campagna elettorale, Dukarović si è dannato l’anima nel contattare personalmente tutti i musulmani che abitavano a Srebrenica per chiedere loro di registrarsi nelle liste elettorali del paese. Ma che ce l’abbia fatta a tenere il Comune è ancora tutto da verificare. Le urne di Srebrenica, come era da prevedersi, hanno assegnato la vittoria alla candidata serba (3.400 voti contro 2.900) ma le schede che stanno arrivando per posta stanno lentamente spostando l’ago della bilancia verso il bosniacco. Al momento in cui scrivo, Dukarović ha annunciato la sua vittoria dal suo sito internet, mentre alcuni lanci di agenzie internazionali concordano nell’assegnare la maggioranza dei voti alla serba.
Ma comunque vadano le cose, è chiaro che i veri vincitori sono i partiti della destra nazionalista e che in Bosnia ogni ipotesi di riconciliazione è stata sotterrata prima ancora di imparare a respirare. La politica del genocidio ha ottenuto il suo scopo.

Quando i Caschi Blu ti mandano al macello

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Srebrenica - Hasan Nuhanović era là, quel maledetto luglio del ’95, dentro il campo dei caschi blu olandesi di stanza a Srebrenica. Vide i venticinquemila profughi bosniacchi fuggire terrorizzati dalla città caduta in mano agli ultra-nazionalisti serbo bosniaci, ed implorare protezione ai soldati dell’Onu. E vide i caschi blu accogliere le prime 5 mila persone per chiudere poi i cancelli della base e abbandonare tutti gli altri alle efferate rappresaglie dell’esercito nazionalista guidato dal criminale di guerra Ratko Mladiić e dalle formazioni paramilitari "Lupi della Drina" e "Skorpijoni". Hasan era uno dei traduttori in forza al comando dei caschi blu olandesi e partecipò di persona alle trattative in cui il generale Thomas Karremans comandante del Dutchbat decise di accettare le richieste dei serbo-bosniaci e di consegnare anche i profughi che aveva accolto dentro la caserma, fidandosi della parola di Mladic secondo cui “non sarebbe stato fatto loro alcun male”. Toccò a lui, Hasan Nuhanović, tradurre dall’olandese al bosniaco “uscite dalla base in gruppi da cinque e andate dai serbi che vi porteranno al sicuro”. Intanto, - come racconterà un dottore di Medici senza Frontiere - fuori dalla base riecheggiavano già gli spari e le urla delle esecuzioni sommarie. I fascisti stupravano le donne e gli ammazzavano i figli davanti agli occhi.
Tra i cinquemila che uscirono dalla base per andare incontro ai loro carnefici c’era anche il padre, la madre e il fratello di Hasan. Non li rivide più. I loro nomi oggi compaiono tra le 8372 steli bianche del memoriale di Potočari. Attorno al campo, un’ampio spazio verde è pronto per accogliere i corpi di altri 1300, forse 1500 o anche più, assassinati. Il recupero e il riconoscimento dei corpi è una impresa disperata perché, tre mesi dopo l’eccidio, i serbi riaprirono le fosse comuni con mezzi pesanti e straziarono i cadaveri e spargerli in fosse più piccole. Un tentativo crudele quanto inutile e stupido di nascondere un crimine contro l’umanità.


Oggi, Hasan Nuhanović non è poi così diverso da come appare in quel video, girato una quindicina di anni fa, che proiettano al memoriale di Potočari. Il filmato scorre sui volti terrorizzati di donne e bambini in fuga dal paese caduto in mano ai serbo-bosniaci. Scene di guerra, rastrellamenti, cadaveri abbandonati per strada. Con lo sguardo basso, cercando a fatica di mantenere un tono neutro, Hasan racconta i giorni del genocidio. Ma Hasan non si limita a raccontare la storia. Hasan vuole giustizia.
Otto anni fa ha iniziato una causa penale al tribunale di Amsterdam accusando il contingente olandese di essere complice nell’omicidio dei suoi genitori. Il secondo grado di giudizio gli ha dato ragione e l’esercito olandese, che continua a protestarsi innocente, è stato costretto a fare ricorso al terzo grado, quello paragonabile alla nostra Cassazione. Tra un paio di anni, tempi forensi, avremo il giudizio definitivo. Nessuna speranza di ottenere pene detentiva ma un cospicuo risarcimento che Hasan devolverà ad una fondazione per aiutare i parenti delle vittime della strage di Srebrenica a intraprendere la medesima strada legale.
Ho incontrato Hasan Nuhanović questa mattina, al centro giovani di Srebrenica in occasione della settimana della memoria organizzata dalla Fondazione Alex Langer nell’ambito del progetto Adopot Srebrenica.

Hasan, tu hai cominciato una causa in terra olandese, al tribunale olandese, contro l’esercito olandese. Come sta andando?
I tempi legali sono sempre molto lunghi. Il secondo grado di giudizio mi ha dato ragione. Speriamo che anche il terzo grado confermi la sentenza. Sarebbe un precedente importantissimo perché un tribunale stabilirebbe in via definitiva che anche un contingente militare che batte bandiera Onu non può esimersi dalle sue responsabilità richiamandosi ad una responsabilità superiore che per sua natura gode dell’immunità internazionale come le Nazioni Unite.

Quali sono le motivazioni a sostegno della colpevolezza dei caschi blu olandesi?
La linea dell’accusa sostiene che, pur essendo stati uccisi dalle forze serbe, il contingente olandese ha della responsabilità precise perché li ha consegnati ai serbo-bosniaci pur sapendo che il mandato che gli aveva assegnato l’Onu era quello difendere i civili ad ogni costo. Non potevano non sapere che gli assedianti avevano dichiarato che avrebbero passato per le armi ogni uomo di Srebrenica. Infatti la sentenza del giudice che mi dà ragione vale solo per mio padre e mio fratello. Per quanto riguarda mia madre, il tribunale ha sostenuto che il contingente Onu non può dirsi responsabile in quanto i serbo- bosniaci non avevano detto nulla riguardo alle donne. Anche se nei fatti sono state ammazzate lo stesso.

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Come si sta difendendo l’esercito olandese?
Intanto bisogna dire che l’Olanda si è sempre rifiutata di confrontarsi con gli avvenimenti di Srebrenica. Ho dovuto iniziare io la causa perché altrimenti i militari non sarebbero mai stati incriminati (un governo di destra ha assegnato loro addirittura una medaglia al valore, immediatamente revocata dal successivo governo di sinistra.ndr). Spero che la sentenza aiuti a promuovere una discussione sul ruolo dei loro caschi blu nella guerra di Bosnia. Per quando riguarda la difesa, tendono a fare le vittime: ma come? noi ci siamo sacrificati per voi e questo è il vostro ringraziamento? All’inizio semplicemente negavano i fatti. Noi non abbiamo mai mandato fuori dalla base i profughi. Abbiamo fatto il possibile per difendere tutti. Poi, di fronte all’evidenza dei fatti, hanno sostenuto che loro non potevano sapere cosa avrebbero fatto i serbi ai prigionieri. Ma il mandato Onu era proprio quello di difenderli e di verificare che non fosse fatto loro alcun male! E poi non era possibile non udire dalla base gli echi degli spari delle esecuzioni sommarie!
Durante l'operazione Oluja (che significa “Tempesta”.ndr) l'esercito croato entra nella Krajina e conquista Knin, nella costa dalmata. Come è successo a Srebrenica, gli abitanti si sono rifugiati in una base di caschi blu. Ma qui c’erano i canadesi e le cose sono andate diversamente. Il capitano canadese ha detto ai croati che avrebbero dovuto passare sul suo cadavere prima di mettere le mani anche su un solo rifugiato e alla fine nessuno è stato ucciso. Certo, Ratko Mladic era un pazzo sanguinario. Magari avrebbe anche attaccato le forze Onu... ma la paura non può essere una giustificazione per un soldato.

Gli olandesi hanno anche sostenuto che non c’era spazio nella loro base per le 25 mila persona in fuga.
Hai visto anche tu la base. I 5 mila profughi che inizialmente sono stati accolti occupavano solo la rimessa dei mezzi. Tutti gli altri edifici erano vuoti. E poi c’era il campo attorno alla base. No. Lo spazio c’era. Anche le riprese aeree lo hanno dimostrato. Su questo punto i giudici non hanno avuto nessun dubbio. I soldati avrebbero potuto, avrebbero dovuto, aiutare e difendere tutti i 25 mila rifugiati. Ed invece hanno scelto di mandare a morire anche quelle 5mila persone che inizialmente avevano accolto.

Come sei riuscito a dimostrare al tribunale che il comando olandese ha avuto delle corresponsabilità precise nel genocidio?
Non ho mai commesso l’errore di mettere la mia parola contro quella dei generali olandesi. Io so che mi hanno fatto tradurre alla mia gente: “Mettetevi in fila per cinque e andate dai serbi che non vi faranno del male”. Ma loro avrebbero negato tutto. No. Ci sono i fatti che parlano al posto mio. I documenti che registrano l’ingresso di 5 mila persone che poi non c’erano più. Le testimonianze dei Medici senza Frontiere che erano al campo e degli stessi soldati olandesi che oggi pingono quando visitano Potočari. I fatti sono incontestabili. Il problema piuttosto è il livello di responsabilità. Io sostengo che gli olandesi dovevano difendere la popolazione e non lo hanno fatto, quindi sono colpevoli.

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Ecco che siamo arrivati al punto. Perché gli olandesi si sono comportati così?
Bisognerebbe chiederlo a loro. Di sicuro la caduta di Srebrenica e la consegna di tutti i profughi ai serbo-bosniaci per loro è stata una benedizione. Il mandato ordinava loro di rimanere a presidiare la zona sino a che ci fosse stato anche un solo civile da difendere. La sera stessa che hanno mandato i profughi a farsi massacrare hanno telefonato al comando di Sarajevo dicendo che davano inizio alle operazioni di rientro. Da qualsiasi parte la vuoi guardare, questa è un modo di agire immorale, inumano e illegale. Non parlo solo della cacciata dei profughi ma anche della giustificazione bugiarda che dai al tuo comando: non è rimasto più nessuno da difendere quindi noi torniamo a casa. Ma non ci sono più perché li avete mandati voi al macello! La sera stessa i telegiornali li hanno immortalati a Zagabria, mentre festeggiavano quella che per loro era la fine della guerra. E il generale Karremans, tutto sorridente, si scambiava “doni di pace” con Mladic.
Devi considerare che è anche una questione di mentalità. Un contingente spagnolo o francese non si sarebbe mai comportato così. Non perché siano più buoni o più bravi, ma per una questione di dignità. Non si sarebbero permessi una vergogna di questo livello.

Cosa intendi per mentalità?
Intendo che tra i soldati del contingente olandese, parlo a tutti i livelli, serpeggiava un razzismo neanche tanto nascosto. Non solo nei confronti dei musulmani ma anche dei serbi. Popoli slavi dagli istinti primitivi e tribali, ci consideravamo. Certo questo non posso dimostrarlo e non sono neppure cose che si possono mandare a processo. Ma spiegano comunque certi atteggiamenti di superiorità e di menefreghismo nei confronti di coloro che dovevano proteggere. Dovevano rappresentare parte della soluzione del problema ed invece si sono dimostrati parte del problema. Ripeto, se invece degli olandesi ci fossero stati altri... Gli olandesi si comportavano come se la cosa non li riguardasse, come se fossero semplici osservatori intoccabili e dotati di immunità in una guerra di gentaglia primitiva e sanguinaria.

La religione ha giocato un ruolo importante nel conflitto?
No. Ha giocato un ruolo importante casomai nell’escalation del conflitto. Quella nata dal disfacimento della Jugoslavia è stata una guerra di conquista territoriale e basta.
La prima guerra è stata in Slovenia, la seconda Croazia. Tutti paesi cristiani. Quando è arrivata in Bosnia la religione ha giocato un ruolo solo per i politici che cercavano di manipolare la realtà dei fatti per ottenere consensi nazionali o internazionali. Ma gli stessi musulmani bosniaci non si ritenevano neppure una comunità. Se i serbo-bosniaci attaccavano un villaggio dicevano “a noi non succederà. Con i serbi di qui siamo sempre andati d’accordo”.

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Come è la Bosnia oggi?
Nessuno parla di quello che è successo durante la guerra. Non ci sono neppure tentativi di comunicazione tra le parti. Ognuno fa la sua vita e segue aspettative radicalmente diverse. I musulmani sperano di ritornare nei luoghi da cui sono stati cacciati e di ridiventare maggioranza. I serbo-bosniaci sperano che i profughi restino dove sono e che le terre che oggi occupano si stacchino dalla Bosnia ed entrino nella Serbia. Entrambe le aspettative sono assurde ed irrealizzabili. I musulmani oggi occupano il trenta per cento del territorio. In uno spazio così piccolo non potranno mai diventare maggioranza nel Paese. Ma anche il passaggio territoriale di mezza Bosnia alla Serbia è una prospettiva irrealizzabile. Eppure, da una parte e dall’altra, politici che tra loro non si parlano continuano a promettere alla loro gente questi orizzonti irraggiungibili. Cosa succederà quando tutti capiranno che né una cosa né l’altra potrà accadere sino a che esisteranno o i serbi di Bosnia o i musulmani di Bosnia?

Lo Stato Che Non C'è nel cuore dell’Europa

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Odessa - Inutile cercarla sulla carta geografica. La democratica repubblica comunista della Transnistria non è segnata su nessuna mappa. Ma se viaggiate attraverso la Moldavia, da ovest ad est, come sto facendo io, con l’intenzione di raggiungere il confine ucraino, rischiate di cascarci dentro. E sono cavoli vostri perché da queste parti la legge la detta solo chi ha un Kalashnikov in mano! Stiamo parlando di una specie di Isola Che Non C’é, dove però Capitan Uncino ha fatto fuori Peter Pan e se la governa da padrone.
Per l’Europa e per la comunità internazionale, la Transnistria semplicemente non esiste. Quella lunga e stretta striscia di terra sulla sponda orientale del fiume Nistro che fa da cuscinetto tra la Moldavia e l’Ucraina, appartiene giuridicamente alla Moldavia. Ma nei fatti, è una repubblica perfettamente indipendente con tanto di polizia, esercito, prigioni, bandiera, moneta propria, presidente (dittatore) e parlamento. Ma è uno Stato che nessun altro Stato sulla faccia della terra si sognerebbe mai di riconoscere, fatto salvo per altri Governi non riconosciuti da nessuno come l’Abcasia e l’Ossezia del Sud.


Le rivendicazione territoriali della Moldavia che continua a ritenere la terra a ridosso del fiume Nistro come un suo territorio, la lasciano perfettamente indifferente. Il governo di Chisinau non né la forza politica né quella militare per riprendersi quella regione che nel 2 settembre del 1990 si è dichiarata unilateralmente indipendenti in seguito ad un colpo di mano della 14ª armata dell’esercito sovietico stanziata a Tiraspol, oggi capitale dello Stato fantasma, approfittando della confusione legata alla dissoluzione dell’Unione Sovietica.
Proprio la dissoluzione gigante sovietico ha decretato la fortuna economica e di conseguenza anche quella politica di questa repubblica della banane. Subito dopo aver dichiarato l’indipendenza, i generali della 14ª armata hanno cominciato a mettere sul mercato l’unico bene a loro disposizione: le armi dell’armata Rossa. La Transnistria è diventata così un gigantesco bazar dove, pagando sull’unghia, si può comperare di tutto: mitraglie Policeman, pistole Makarov, lanciarazzi anticarro Rpg7, lanciamine Vasiliok, lanciagranate Gnom e Spg9, razzi Bm 21 Grad, missili portatili Duga. Per non parlare di tutte le enormi quantità di materiali nucleari, chimici e radioattivi stoccati nei depositi oggi abbandonati dell’esercito sovietico, come i famigerati missili Alazan dotati di testata agli isotopi radioattivi che fino a qualche anno fa erano piazzati all’aeroporto di Tiraspol e di cui si sono oggi perse le tracce.
A tenere le redini di questa ebay del terrore è la mafia russa che in questo Eden del contrabbando della droga, del petrolio e delle armi non è mai neppure stata dichiarata una organizzazione illegale. Anzi, alle ultime elezioni ha democraticamente fatto eleggere l’attuale “presidentissimo” con la percentuale del 103% degli aventi diritto al voto. Neanche i conti, sanno fare!
Il tutto, sotto le bandiere di un vetero comunismo che farebbe la felicità di certi nostalgici amici miei. La Repubblica della Transnistria infatti è tutt’oggi il solo Stato a dichiararsi ufficialmente leninista con gran sventolio bandiere rosse, falci e martelli, gigantografie di Marx, Lenin, Stalin, orride statue ad eroi operai.
Qualche ingenuo potrebbe domandarsi come possa la comunità internazionale tollerare l’esistenza di un tale “Stato Canaglia” senza che nessun politico si sogni mai di proporre contro la Transnistria anche solo un centesimo di quelle sanzioni che ancora oggi continuano ad impoverire Cuba. La risposta è semplice. La Transnistria è utile quanto, e forse più della Svizzera: in questa sottile striscia di terra vengono a rifornirsi, come ad in un gigantesco “discount”, dittatori, stragisti, servizi segreti più o meno deviati, mafie e gruppi terroristici di tutto il mondo. Non c’è da meravigliarsi se quando si parla di politica internazionale, tutti facciano finta che la Transnistria non esista. Eppure la Transnistria esiste, eccome. E se ci cascate dentro - e non sieste dei mafiosi - vi obbligano pure a pagare tutto due volte. Ogni spesa infatti viene effettuata prima con la moneta della Transnistria (che è come dire i soldi del Monopoli o quelli col muso di Bossi) e poi in rubli (che valgono sul serio). Il cambio, alla frontiera, è ovviamente obbligatorio. E provate voi a dire di no ad uno che vi punta il kalashnikov sulla pancia.
Benvenuti nella libera repubblica della Transnistria. Secondo stella a destra, questo è il cammino.

La guerra nascosta sotto il Tetto del Mondo

DSC06546Dushanbe - Nel leggere i comunicati diffusi dal ministero della guerra tajiko, nel Pamir sarebbero in atto solo delle “scaramucce tra l’esercito regolare e bande di trafficanti di droga”. Sempre secondo questi comunicati, che la maggior parte dei media occidentali ha ripreso pari pari e senza nessuna verifica - a dimostrazione dell’interesse praticamente nullo che tanto l’Europa che gli Usa nutrono per questo angolo di mondo -, si sarebbero registrati non più di venti morti dall’inizio di agosto ad oggi, equamente divisi tra militari e narcotrafficanti.
Fatto sta che queste cosiddette “scaramucce” sono tuttora in atto e, anzi, si stanno intensificando, tanto che l’ambasciata tedesca di Dushanbe si è assunta l’incarico di radunare tutti gli europei presenti nel sud del Paese e riportarli a casa. Anche l’ingresso nel Paese è diventato più difficile. Ottenere un visto turistico o anche lavorativo per il Tajikistan, lo so per esperienza diretta, è oggi una impresa più difficile del consueto. E anche quando riesci ad ottenere il sospirato visa (non di rado allungando qualche mazzetta da un centinaio di dollari ai funzionari dell’ambasciata), un timbro supplementare mette in chiaro che il tuo permesso di ingresso “non vale per il Pamir”.


Viene il dubbio quindi che quanto sta succedendo sotto il Tetto del Mondo, non siano solo “scaramucce tra esercito e banditi”.
Anche se i giornali locali fanno a gara per riprendere i comunicati ufficiali del Governo senza uscire di una sola virgola - da queste parti si finisce in galera per molto meno! - le storie che ti raccontano la gente per strada, i viaggiatori allontanati dal Pamir e i volontari delle tante ong impegnate in progetti di sostegno con fondi europei, sono completamente diverse. I morti, intanto. L’esercito avrebbe subito perdite superiori ai duecento soldati. “Hanno mandato sulle montagne i ragazzini di 18 anni appena arruolati e i pamiri li hanno fatti a pezzi” mi ha detto un amico di qui al quale, scusatemi, ho promesso l’anonimato. “Il Governo ha cercato di nascondere tutto quello che è successo parlando di lievi perdite e cercando di sminuire gli avversari. Ma la realtà dei fatti è che i pamiri hanno sempre mantenuto il controllo delle loro montagne. Dalla fine della guerra civile non è cambiato niente da quelle parti. Questa estate, l’esercito ha cercato di riprendere il controllo di un territorio che è una delle porte del traffico di droga proveniente dall’Afghanistan, ma da come vanno le cose, le sta prendendo di brutto. Anche la televisione di regime manda in onda solo immagini di repertorio e chiacchiera di una serie di ‘importanti vittorie ma parziali’. Che è come dire che stanno perdendo”. La prima vittima di una guerra, si sa, è sempre la verità.
Durante i cinque anni di guerra civile, dal ’92 1l ’97 (cinque anni ufficiali, nei fatti gli scontri nel Pamir si sono protratti per altri due anni sino a che l’esercito non si è ritirato), i pamiri, popolazione con una forte presenza ismaeleita, hanno combattuto dalla parte della fazione perdente, il partito islamico. L’avvento del presidentissimo Emomali Sharifovich Rahmon, padre padrone della patria, ha posto fine ai combattimenti ma, di fatto, l’esercito si è ritirato sia dalle provincie più a sud, il Pamir, che da quella ad est del Paese, il Gorno-Badahšan, dove in pratica non ha autorità.
I problemi maggiori sono però nel Pamir, dove sono duri ai banchi gli ismaeliti, una potente fazione sciita, riconosce come capo spirituale solo l’Aga Khan che li finanzia generosamente, così come fa il governo di Teheran.
Quella che accade nel Pamir insomma, è una vera e propria guerra civile che rischia di mettere a dura prova la credibilità interna del presidentissimo Emomali Rahmon e del suo regime talmente “democratico” che non ha bisogno di indire libere elezioni per seguire la volontà del popolo. Rahmon si è fatto costruire da un architetto italiano una sede presidenziale proprio nel mezzo di Dushanbe che è la copia esatta della Casa Bianca. Gli orridi palazzoni della città - dei veri e propri incubi architettonici! - sono pieni di sue gigantografie che lo ritraggono mentre coglie il grano o sorride al popolo in mezzo a campi di papaveri. Palazzoni che sono quasi tutti di sua proprietà o di proprietà di qualcuno dei suoi nove figli. La figlia maggiore in particolare, sembra abbia una vera a propria vocazione da “palazzinara”, come diremmo in Italia.
Il post sovietismo in Tajikistan ha traghettato tutto il peggio dell’ex Cccp ma senza poter contare sulle sue risorse economiche. La scuola, la sanità, i principali servizi civili sono gratuiti ma è come se non ci fossero. La delinquenza è praticamente sconosciuta ma la corruzione è eletta a una vero e propria attività commerciale che nessuno può evitare come non si può evitare di uscire di casa per andare a fare la spesa. Lo studente che vuole passare l’esame deve pagare il professore, il professore che vuole lavorare deve pagare il preside, il preside il provveditore e il provveditore il ministro. Il ministro infine deve consegnare una percentuale dei suoi guadagni a lui, al presidentissimo, e alla sua famiglia di squali. Tutto questo “commercio” in nero ha una ricaduta pesantissima sulla società. Uno come il Trota qui, potrebbe diventare medico o ingegnere in due giorni e senza scandalizzare nessuno. Le lauree le vendono un tanto al chilo. Ma negli ospedali aperti al popolo, dove le attrezzature sono ferme a vent’anni fa, mai rinnovate e mai sottoposte a manutenzione, trovare qualcuno in grado di formulare una diagnosi corretta è praticamente impossibile. Così gira la ruota in Tajikistan. La droga che arriva dall’Afghanistan qui non crea problemi sociali perché non si ferma che per elargire le regolari mazzette ai funzionari di frontiera. I trafficanti sono riconoscibili a vista. Girano in auto fiammanti di grossa cilindrata, sgommando ai semafori con accelerazioni da formula uno, mentre i poliziotti, presenti ad ogni angolo di strada, girano la testa per far finta di non vedere.
“Rahmon? Sì, ruba, lo sappiamo tutti che ruba - mi sono sentito rispondere da più persone del posto -. Ma lui ha portato la pace dopo la guerra civile. Meglio lui che gli islamici. Noi siamo musulmani ma siamo abituati a bere birra e vodka, i precetti li osserviamo ma anche non li osserviamo. In moschea a pregare regolarmente qui ci va il 10 per cento della gente”. E così a denunciare la corruzione del regime come un male sociale sono solo i mullah sunniti che rimproverano al presidentissimo di essere più incline ai principi dello zoroastrismo che a quelli del Corano. La risposta di Rahmon non si è fatta attendere: ha chiuso tutti i centri salafiti - ristoranti compresi - e richiamato in patria tutti i giovani tajiki che studiavano nelle madrasse (scuole di teologia) estere.
Decisioni che non sembrano sufficienti a fermare l’avanzare dell’islamismo. A Dushanbe il numero di donne che abbandona il copricapo tajiko (in pratica un fazzolettone colorato annodato dietro la nuca alla contadina) per il velo islamico, che non fa assolutamente parte della tradizione locale, è sempre più alto. In un Paese in cui l’organizzazione politica o sindacale è un reato contro lo Stato e se scendi in piazza per protestare ti sparano, la moschea è l’unico luogo in cui può ritrovarsi chi è schifato da un regime che ha eletto la corruzione a principio democratico.
La guerra civile che si combatte sul Tetto del Mondo rischia di precipitare sino a Dushanbe.

Rwanda, 18 anni dopo

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Kigali - La primavera in Rwanda si tinge di viola. E’ il colore del lutto. E’ il colore del genocidio a colpi di machete che 18 anni fa, nell’aprile del ’94, insanguinava il Paese delle Mille Colline. Torrenti di sangue trascinavano a valle i corpi macellati dei tutsi, sino al lago Vittoria dove si impigliavano nelle reti dei pescatori. Oggi le tracce delle fosse comuni scavate sulle sponde ugandesi del lago da cui nasce il Nilo, culla di civiltà, sono state cancellate per non turbare le coscienze dei turisti che non riuscivano a dare un senso ad una tale ecatombe. Non facciamone una colpa. E’ impossibile farsi anche una pallida idea di cosa significa un milione di morti ammazzati in meno di tre mesi. E’ come parlare delle stelle. Come dire che Proxima Centauri dista “solo” quattro milioni di anni luce, mentre Aldebaran è 500 volte più luminosa del sole. Numeri esatti ma senza senso per il nostro limitato sentire comune. Ma mai, mai nel corso della storia dell’uomo, sono state uccise così tante persone in così poco tempo e con mezzi così banali come machete, coltelli da cucina, bastoni e martelli. Non era una scelta di campo. La Banca Mondiale aveva negato il finanziamento per le più pratiche armi da fuoco, sostenendo che il governo dell’Hutu Power non era economicamente solvibile. Per risolvere le sue faccende interne, poteva concedere al Rwanda al massimo un prestito per quegli 80 mila machete di seconda mano che la Cina, generosamente, era disposta a fornire a prezzi scontati. Di necessità virtù. Così è cominciato quello che è stato definito il “genocidio dei poveri”. Ma non c’era nessun’altra ragione che giustificava l’uso dei machete se non che le pallottole costavano un sacco.



IL GRANDE MAUSOLEO
Adesso, un milione di morti dopo, non è più possibile pensare di visitare il Rwanda seguendo un itinerario solo naturalistico, pure se le profonde valli coltivate a tè, a caffè o a cacao si aprono al viandante in spettacolari panorami che non hanno uguali in tutto il continente. Ogni strada ha le sue lapidi di cemento per ricordare i blocchi stradali dei miliziani dell’Interahamwe (letteralmente “Colpiamo insieme”) che filtravano la popolazione in fuga e non lasciavano scampo a chi non poteva dimostrare di essere un hutu fedele al regime. E per provarlo, doveva lui stesso macellare un tutsi. Ogni villaggio, anche di poche capanne, ha il suo monumento funerario a cifre tonde. Cinquemila morti qua, tremila di là. Si va ad occhio. Alla “più o meno”. Ancora oggi, capita che un contadino intento a piantare un banano scopra una fossa comune con qualche decina di teste mozzate e vari pezzi di uomo. Con una recente legge, il governo rwandese ha deciso di smettere di innalzare monumenti funerari sui luoghi degli eccidi e di tumulare gli ultimi ritrovamenti nel grande mausoleo innalzato sopra una collina della capitale, Kigali. Davanti al fabbricato che ospita una terrificante esposizione che prova a raccontare la storia del genocidio, c’è una enorme fossa con una lastra mobile di marmo bianco. Almeno una volta alla settimana, qualche gruppo di sopravvissuti vi si reca per depositare casse di ossa recuperate da qualche parte, sotto le mille colline di quel Paese che negli anni ’70, quando le multinazionali ci investivano camionate di dollari per lo “sviluppo economico del terzo mondo”, veniva chiamato la “Svizzera d’Africa”. Proprio come il Libano per il Medio Oriente. E’ una definizione che porta male, evidentemente. Ti viene da riflettere sul come mai alla Svizzera vera non succeda mai niente.

I FUNERALI DI CHARLES
La cerimonia di tumulazione è semplice. Un impianto stereo suona l’inno nazionale, dei soldati in alta uniforme spostano la lapide e calano la cassa con i resti, i sopravvissuti piangono. Ho buttato l’occhio dentro la fossa. E’ immensa ma c’è ancora un bel po’ di posto. “Ci vengo tutte le volte che posso e che seppelliscono qualcuno – mi racconta un signore di mezza età -. Io ero a Londra a studiare medicina all’epoca. Mia madre, mio padre, i miei due fratelli, le mie tre sorelle, e cugini, zie… li hanno ammazzati tutti. Di alcuni ho identificato e recuperato i corpi ma di altri, come mia madre, ancora no. Adesso vengo qua e spero di capitare, magari per caso, al suo funerale”. E’ vestito elegante, il signor Charles. Preferisce essere chiamato all’inglese che alla francese, mi spiega, anche se parla correttamente tutte e due le lingue oltre, si capisce, al kinyarwanda, la lingua locale. Indossa un bel completo grigio e una cravatta viola con fazzolettino in tinta che gli spunta dal taschino. Porta con sé un grande quadro incorniciato in argento che ritrae una coppia in posa per una foto ricordo, come quelle che si andavano a fare per certe ricorrenze speciali nello studio di un professionista. “My mother, my father”, mi dice. Quando è tornato dall’Inghilterra non ha trovato più niente di quello che aveva lasciato. La casa devastata, la famiglia distrutta. “I vicini che ci erano amici prima del genocidio non avevano il coraggio di guardarmi. E io non avevo il coraggio di guardare loro perché non potevo sapere che parte avevano avuto nel massacro dei miei. Non ce l’ho più fatta a vivere nel paese dove sono nato e mi sono trasferito nella capitale a fare il medico”.

VITTIME O CARNEFICI?
Non si viaggia leggeri in Rwanda. Non si può non chiedersi continuamente come sia stato possibile un tale scoppio di violenza genocida. Non si può non chiedersi che parte avremmo avuto noi se fossimo stati là, nel paese delle Mille Colline, in quell’aprile di 18 anni fa. Vittime o carnefici? Non erano possibili né tollerate, vie di mezzo. Quando l’esercito ha ordinato a due bulldozer di abbattere la chiesa di Nyange, dove si erano rifugiati alcune centinaia di donne tutsi con i loro bambini, il primo conducente si è rifiutato ed è stato immediatamente ucciso con una pallottola in testa. Il secondo ha messo in moto il suo mezzo e ha buttato giù le pareti seppellendo tutti vivi.

“COSE INSEGNATE DALLA COLONIZZAZIONE”
A differenza di altri e più celebrati genocidi come la shoah, perpetrato da carnefici “professionisti” come le Ss dei lager, quello del Rwanda è stato un genocidio di popolo portato a compimento dalla gente comune: i colleghi di lavoro, i vicini di casa. Anche i parenti, considerato che moltissime famiglie erano miste. Hutu contro tutsi. Ma anche hutu contro quegli hutu che non ci stavano e che si rifiutavano di massacrare col machete o con i martelli le “blatte” tutsi. Oggi le chiese dove i tutsi si rifugiavano sperando inutilmente di essere risparmiati sono sconsacrate e stipate dei loro resti. Le ossa spaccate, i crani sfondati ammucchiati a ridosso delle pareti, i vestiti oramai ammuffiti dove vi hanno scavato la tana grossi ragni, sono appesi al soffitto e raccolti in pile davanti agli altari. L’odore è nauseante ed è dura passarci in mezzo senza dare di stomaco. Se chiediamo ai sorveglianti il perché di tutto questo, che l’esposizione dei morti non fa parte della cultura africana, ti rispondono che neppure il genocidio lo era. “Sono tutte cose che ci sono state insegnate dalla colonizzazione”. Fuori, coperto da stoffe viola, si alza l’immancabile monumento commemorativo. “Never again” ci trovate scritto. “Mai più”. Sempre in lingua inglese. Anche il genocidio rwandese può essere letto in funzione di quella guerra tra il capitalismo anglofono e quello francofono eredi della colonizzazione dell’Africa. Tra un Paul Kagame, leader del Rwandan Patriotic Front (Rpf), sostenuto dagli Usa e il governo dell’Hutu Power spalleggiato dall’allora presidente francese, il socialista Francois Mitterand.

LA RICOSTRUZIONE
Il Rwanda di oggi è un Paese che sta sostituendo il francese con l’inglese anche nella cartellonistica stradale. Anche i capitali stranieri investiti hanno una diversa provenienza rispetto a vent’anni fa. Più dollari e yuan che franchi (o euro), per intenderci. Soldi che comunque sono andati a finanziare anche opere meritorie. Il Paese offre ospedali di buon livello, per gli standard africani, gratuiti e aperti a tutti. Ha scuole per bambini e strade neanche tanto disastrate (se siete arrivati in auto dal Congo, vi sembreranno autostrade). Le Mille Colline sono coltivate sino a dove è possibile coltivare. Tutte le persone che ho conosciuto sanno leggere e scrivere e mi hanno lodato il programma di alfabetizzazione che il presidente Kagame ha realizzato, grazie anche a cospicui aiuti internazionali. Le Banca Mondiale, la stessa che ha fatto il bonifico per l’acquisto dei machete, si è impegnata a sostenere l’esportazione di tè e caffè. Perlomeno fino alla prossima “crisi”. Ma oggi, anche chi non ha niente, può scendere le valli ed immergersi nelle sterminate piantagioni di tè, raccogliere le piccole foglie e ricavarne quantomeno il minimo vitale. In Africa non è poco.

EFFICIENZA AFRICANA
La pubblica amministrazione del Rwanda, se diamo credito alle statistiche condotte da alcune organizzazioni per i diritti civili internazionali, è la meno corrotta dell’Africa: Nell’hit parade internazionale sembra sia anche meno corrotta di quella italiana – piuttosto giù di classifica – e di poche tacche sotto Svezia e Danimarca. Il suo parlamento è il primo nella storia dell’umanità ad avere, come elette, più donne che uomini ed è l’unico Paese centroafricano non solo a non perseguitare penalmente ma neppure a discriminare legalmente gli omosessuali. Inoltre ha da poco varato una legge contro la violenza nei confronti delle donne che è considerata tra le più avanzate del mondo. Le elezioni che per la terza volta consecutiva hanno visto trionfare il presidente Paul Kagame con una di quelle percentuali che una tempo ci divertivamo a definire “bulgare”, si sono svolte, a giudizio degli osservatori Onu, senza neppure troppi brogli. E’ questo il Rwanda nato dal genocidio? Di sicuro, Paul Kagame e il suo Rpf hanno avuto, politicamente parlando, vita facile nel gestire i resti di un Paese terrorizzato e reduce da un macello. Viene anche da riflettere su tutti quei “ritardi” nell’avanzata dell’esercito del Fronte Patriottico, in quella tremenda estate di 18 anni fa, nonostante il comandante di quello sparuto gruppo di Caschi Blu rimasto in Rwanda, Romeo Dallaire, supplicasse Kagame di fare presto, se voleva trovare ancora “qualcuno di vivo”. Freddo calcolo militare o spietato ragionamento politico?

PAUL KAGAME
Naturalmente, anche queste medaglie hanno il loro rovescio. Tra tutti i governi africani, quello di Paul Kagame è l’unico che non si preoccupa solo di controllare le azioni dei suoi cittadini ma anche, e soprattutto, quello che pensano. Il genocidio è materia di studio obbligatoria in tutte le scuole in tutti i livelli. E la risposta giusta alla domanda finale d’esame “Chi ha posto fine al genocidio?” è sempre e solo “Paul Kagame”. Per la lode bisogna aggiungere “amato padre della Patria”. L’iscrizione al partito di governo per gli adulti non è obbligatoria ma fortemente consigliata. I giornali di opposizione nascono liberamente ma sono sempre costretti a chiudere dopo pochi numeri. Giornalisti critici e avversari politici, prima o poi, finiscono in galera. E l’accusa infamante che apre le porte del carcere è sempre la stessa: negazionismo. E’ questa la parola magica. Il genocidio è un nervo scoperto. Chi osa criticare il presidente Kagame che ha posto fine allo sterminio non può che essere uno che nega il genocidio e offende la memoria di quel milione di morti ammazzati. Basta una accusa generica di negazionismo e si finisce dritti sotto processo. Quei pochi che mormorano che oggi in Rwanda vige un “razzismo opposto”, e le cariche più prestigiose, i lavori più pagati sono prerogativa esclusiva dei tutsi, lo fanno dall’estero, dalla Francia. Son cose che qui non si possono neppure bisbigliare.

TUTSI E HUTU
E d’altra parte, per chi ancora vive nel Paese delle Mille Colline, termini come tutsi e hutu sono diventati un tabù. Scomparsi non solo dalle carte di identità, dove ce li avevamo messi i colonizzatori belgi preoccupati di dividere la popolazione per controllarla meglio, ma anche dai libri di storia e dagli stessi musei etnologici. Solo nel mausoleo del genocidio ne ho trovato traccia. Difficile anche capire se davvero tutsi e hutu possono essere definite due etnie diverse, considerato che condividono la stessa lingua e gli stessi miti. Una ricerca etnologica compiuta ai tempi della colonizzazione dai Padri Bianchi belgi, preoccupatissimi di trovare un qualcosa che distinguesse gli uni dagli altri, stabilì solo che gli hutu avevano in media il naso di due millimetri più piccolo dei tutsi. Se si fa un simile “studio scientifico” tra veneti e lombardi si trovano più differenze! Probabilmente, come ha osservato Ryszard Kapuściński, più che di etnie è corretto parlare di caste. Pure se ben diverse da quelle stagne dell’induismo. “I tutsi erano allevatori, gli hutu contadini – mi ha spiegato un ragazzo, studente di legge alla National University di Butare che ho conosciuto al museo dell’Olocausto – ma se il re per premiarti ti regalava una mandria di ankole (le tipiche vacche centroafricane dalle enormi corna.ndr) tu, hutu, diventavi immediatamente tutsi”. Soltanto caste quindi. Soltanto una ingombrante eredità di un tempo che non c’è più ma che sarebbe bastata a scatenare i massacri.

“SONO SOLO UN RWANDESE”
Quando mi azzardo a chiedergli se lui viene da una famiglia tutsi o hutu, il ragazzo mi guarda inorridito e mi balbetta che la mia domanda non ha più senso. Che lui è solo un rwandese tra i rwandesi e che compie un pericoloso errore chi cerca di spiegare quanto è accaduto affidandosi alle categorie tribali di “tutsi e hutu”. Con lui visito l’ultima ala del mausoleo dedicata agli altri genocidi che hanno insanguinato gli ultimi decenni della storia dell’umanità: l’olocausto nazista, gli armeni, il Darfur, la Cambogia… Nel portone d’uscita, in alto, a caratteri cubitali, ancora la scritta “Never again”. Ripenso a Primo Levi. Non cercate ragioni. E’ accaduto. Accadrà ancora.

I poveri miliardari dello Zimbabwe

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Victoria Falls, Zimbabwe
- Nel mio portafogli, dove raramente ospito più di 30 euro, conservo una banconota da 50 bilioni di dollari. Sì. Avete letto bene: bi-lio-ni! Ve la metto pure in cifre: 50 000 000 000 dollari. Che sarebbero - secondo la numerazione anglosassone - cinquantamila milioni di dollari. Una bella cifra, eh? E non sono soldi del Monopoli ma banconote ufficiali con tanto di timbro “Reserve bank”, lussuosa filigrana anti falsificazione, firma autenticata del ministro delle Finanze e numero di serie. Avrei potuto averne anche una più bella da 5 trilioni di dollari, che sarebbero - se non ho cannato i conti col sistema inglese - 5 mila miliardi di dollari, ma l’esoso tipo che me la voleva vendere pretendeva in cambio ben 10 rand sudafricani. Quasi un euro! Decisamente troppo per qualche trilione di dollari.

Così ho frugato in una delle due borse della spesa piene di miliardi di miliardi di dollari che mi porgeva, sino a che ho trovato questa notevole banconota da 50 bilioni che da allora conservo vicino all’abbonamento del vaporetto con la venerazione riservata ad un santino di San Precario. Aspetto solo che qualcuno mi chieda cosa significhi il termine “neo liberalismo” per sbattergliela davanti agli occhi.
I miei 50 bilioni di dollari li ho comprati, dopo stressante contrattazione, da un plurimiliardario affamato e senza scarpe per 5 rand (50 centesimi di euro). E l’affare l’ha fatto lui. Fossi un tipo che guarda ai soldi, avrei potuto tirare ancora un paio di rand. Qui, sotto gli eterni arcobaleni delle cascate Vittoria, il luogo dove “le grandi acque tuonano" e l’inviato Harry Stanley incontrò il dottor Livingstone, le strade son piene di gente che gira con carriole di dollari.
Non che ci sia qualcosa da comprare. I rari supermercati hanno gli scaffali mezzi vuoti. E anche se fossero pieni non cambierebbe niente; da queste parti, con 50 bilioni di dollari non ti porti a casa neppure, non dico una decina di sigarette sfuse, ma neanche una mezza bottiglia di acqua. Che da quando gli acquedotti sono stati privatizzati, i rubinetti buttano sono negli hotel per turisti. Acqua comunque non potabile. Tutti vanno con un secchio in mano a tirar su dallo Zambesi, anche se il Governo lo avrebbe vietato sostenendo che l’acqua in bottiglia è più igienica e sicura.
Eppure, i felici abitanti dello Zimbabwe sono tutti ricchi come zio Paperone. Tutti con le tasche piene di fantastiliardi e sbirillioni. Ce lo ripete sino allo sfinimento Robert Gabriel Mugabe, presidente democraticamente ed ininterrottamente eletto e rieletto dal 1982 ad oggi grazie ad una capillare e costante azione di persecuzione, incarcerazione e tortura degli avversari politici, violenze sistematiche e appropriazione dei generosi aiuti internazionali per farsi le campagne elettorali e corrompere i tribunali elettorali.
Nelle ultime elezioni, nel 2008, l’ha fatta più grossa del solito. Siccome i sondaggi gli dicevano che la gente non ne poteva più di lui, lanciò l’operazione Murambatsvin, parola che in lingua shona significa “fare piazza pulita”. Spazzò letteralmente via dalle bidonville due milioni e mezzo di disgraziati soltanto perché avrebbero probabilmente votato per il partito d'opposizione. “Tolleranza zero per gli sfaccendati che sporcano, non lavorano e danno una cattiva immagine del nostro Paese” ha detto in tv. Quante persone siano state massacrate e buttate in fosse comuni non lo sa nessuno. E non si è fermato qua. Alcune associazioni pacifiste hanno denunciato (dall’estero) che Mugabe, assillato dall’idea di ripulire le città, ha creato appositamente le condizione per la diffusione del colera che dal 2008 ad oggi nelle zone più indigenti del paese ha contagiato 70 mila persona e ammazza con una media che va dalle 2 alle 3 mila persone all’anno. L’acqua inquinata è uno dei veicoli principali dell’infezione. Ma qui, come abbiamo detto, non ti bastano 50 bilioni di dollari per comprare dalla solita multinazionale una bottiglia di acqua “pulita”.
Adesso, va spiegato che Robert Gabriel Mugabe, non è solo il solito dittatoruncolo delinquente da repubblica delle banane, ma un vero e proprio pazzo psicopatico. Come definire altrimenti un tipo che firma documenti ufficiali a nome di dio asserendo di averne la delega, racconta nella sua biografia - testo d'obbligo per le scuole - che George Bush lo voleva nominare ministro delle finanze degli Stati Uniti e che ha massacrato tutti gli omosessuali del paese asserendo che se la godevano a diffondere l’aids?
Il tutto nel più completo menefreghismo della società internazionale. Una mezza colonna sullo Zimbabwe compare di tanto in tanto nei giornali solo per segnalare la sovrumana quantità di aragoste importate dalla Giamaica con cui Mugabe riesce giornalmente ad ingozzarsi mentre il suo popolo muore di fame. Forse è per questo che in Zimbabwe i giornalisti non sono bene accetti. Quando sono sbarcato all’aeroporto, mi hanno portato in una saletta privata, fotografato, fatto un sacco di domande e consegnato un documento con il quale mi sarei dovuto presentare alla polizia segnalando ogni mio spostamento. Cosa che mi son ben guardato dal fare. Mi hanno spiegato fuori dai denti che il Governo non ama la stampa estera e che ogni tanto “son costretti ad arrestare qualcuno” che “scrive cose false sul nostro Paese”. False come provare a capire perché lo Zimbabwe sia allo sfacelo? E’ un bel mistero, questo! E sì, che il nostro Mugabe, sin dal suo insediamento, ha seguito pedissequamente i dettati per un perfetto “sviluppo economico” impartiti dalla Banca Mondiale e dal Fondo Monetario col dichiarato obiettivo di arrivare in tempi brevi al cambio uno a uno col dollaro americano: ha privatizzato tutto quello che si poteva privatizzare e poi anche quello che non si poteva, ha aperto le porte a tutte le multinazionali occidentali consegnando tutte le ricchezze del paese per sfruttarle con tecnologie avanzate e creare posti di lavoro, ha attuato una riforma agraria dettata dall’esemplare criterio di buttare fuori gli inutili contadini e assegnare la terra a chi davvero sapeva farle fruttare: i suoi amici di merenda governativa che si son subito messi a seminare ogm. Il collasso che ne è seguito è ad un livello tale che la Banca Mondiale si rifiuta di fare statistiche sul tasso di inflazione del Paese. Secondo alcuni si aggira sui 13 milioni per cento, ma capirete che son percentuali che non hanno più significato. Per descrivere la situazione, la Banca Mondiale ha coniato il termine “iperinflazione” e per risolverla ha semplicemente depennato lo Zimbabwe dalla lista dei paesi solvibili sconsigliando gli investitori di perderci ancora tempo. Un malato terminale sul quale nessun intervento medico ha senso e speranza. Più che fallito, lo Zimbabwe è morto. E senza che nessun geniale economista ci abbia spiegato il come e il perché, considerato che qui sono state applicate tutte le ricette neoliberiste di “sviluppo economico”. Oggi, lo Zimbabwe, se lo sono comprato i cinesi a prezzi, è il caso di dirlo, di inflazione, senza che il passaggio dal capitalismo al comunismo abbia migliorato o peggiorato le condizioni dei suoi miliardari morti di fame. Comprato a suon di dollari americani, intendo, eh? Mica con i dollari zimbabwesi che non valgono la filigrana con cui son stampati. Queste banconote senza il senso del ridicolo non le vuole proprio nessuno, qui, a Victoria Falls, sotto gli eterni arcobaleni dove “le grandi acque tuonano” e dove anche il paesaggio è proprietà privata di una catena internazionale di alberghi di lusso. Al massimo, riescono a rifilarle, come souvenir, a qualche turista che se le porta a casa per farci una risata sopra. Si compra e si vende - per chi ne ha - in euro, rand del Sudafrica, pula del Botswana, rial iraniani... qualsiasi cosa è più credibile di questi trilioni di dollari senza vergogna. E qui un’ultima osservazione la devo proprio fare. Sulla mia banconota bilionaria c’è scritto in stampatello “I promise to pay the bearer on demand”. Prometto di pagare il portatore su richiesta. Che dite? Se gliela porto a Mugabe me la cambia con un bilione di dollari americani? Mi accontento anche della metà...

Waorani, il popolo resistente

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Comunità Waorani Tobeta, Orellana, Ecuador - Dayuma era una bambina di cinque o sei anni quando quattro pastori evangelici l’hanno rapita e portata a New York. I primi mesi, Dayuma piangeva tutti i giorni e tutte le notti. Guardava quell’assurdo orizzonte di cemento e grattacieli sognando l’apparire di suo padre alla testa di tutti i cacciatori waorani con lance e machete, venuti per riportarla nella sua capanna sul grande rio Napo. Col lento trascorrere del tempo, la piccola Dayuma, cominciò ad accettare le premure di quegli strani uomini bianchi che l’avevano rubata alla sua foresta. Un poco alla volta, cominciò ad apprendere il loro linguaggio mentre i pastori annotavano diligentemente tutte le parole della lingua waorani che lei pronunciava e gliene chiedevano il significato. Dayuma raccontava loro la storia di Waengongi, il dio scimmia creatore della foresta e di tutto l’esistente ma che non doveva essere né temuto né adorato.

Narrava dell’ayahuasca e di come questa magica bevanda, con l’aiuto dello sciamano, ti permette di riappacificarti con il tuo Wenae, che sempre è dentro di te anche se qualche volta tace. Raccontava della morte e di come questa non deve essere temuta perché lo spirito che abbiamo nel cervello ascende al cielo e quello che abbiamo nel cuore diventa un giaguaro. Gli uomini bianchi ascoltavano attentamente quello che Dayuma diceva, prendendo appunti e scuotendo le teste. E intanto le parlavano del Cristo crocifisso dalla cattiveria degli uomini e del peccato originale che deve essere mondato dal bettesimo. La insegnavano che il vero dio era uno e uno solo, e non aveva la testa di giaguaro né l’astuzia della scimmia. E lui, Dayuma, era la prescelta da questo dio onnipotente ed infallibile per portare a termine una grande missione: convertire alla vera e unica fede il popolo waorani.
Quando Dayuma ebbe una quindicina di anni, i pastori evangelici le dissero che doveva essere felice perché era arrivato il gran giorno del suo ritorno al popolo waorani e che loro l’avrebbero accompagnata per aiutarla a convertire al cristianesimo l’ultima nazione indigena che ancora rifiutava ogni contatto con la civiltà. Così Dayma fece.
Adesso la sua tribù non esiste più. Con il vangelo arrivarono morte, malattie e una civiltà che non ammetteva confronti e relativismi. Arrivarono le ruspe, le strade, i coloni, i madederos (commercianti di legname pregiato) e poi anche le multinazionali del petrolio che adoravano uno strano dio chiamato ‘sviluppo economico’ che doveva portare ricchezza e benessere per tutti. Gli ultimi discendenti della tribù di Dayuma oggi ciondolano alcolizzati per le baraccopoli di Quito o di El Coca e non sanno più nulla di come, dopo la morte, lo spirito si reincarni nel giaguaro.
Questo accadeva negli anni ’40. Oggi Dayuma è una vivace novantenne che tira avanti bevendo litri di mate alla coca e si intrattiene volentieri con tutti coloro che le chiedono di narrare la sua storia. Solo, chiede di non essere fotografata per un qualcosa che ha a che fare con l’anima. Tira dalla cannuccia e racconta di quella giovane ragazza waorani ritornata alla sua tribù dopo oltre quindi anni di assenza per accorgersi che oramai non poteva più vivere né nella foresta né nelle città degli uomini bianchi. Racconta di uomini bianchi che credeva amici, che le avevano fatto da famiglia solo per usarla ed ingannarla. Racconta di un ritorno tanto sognato e di come con lei arrivarono le sciagure che sterminarono la sua gente.
Ma la storia di Dayuma non finisce qui. Col denaro che le avevano dato gli uomini bianchi, lei ha contribuito a fondare una comuna che oggi porta il suo nome e dove convivono fraternamente indigeni kichwa e campesinos ecuadoriani. E oggi questa comuna, spiega con orgoglio nonna Dayuma,è la più resistente di tutta l’Amazzonia ecuadoriana.
Grazie alla disponibilità del portavoce di Ya Basta! in Ecuador, Eugenio Pappalardo, abbiamo raggiunto la comuna Dayuma, che si trova a un paio d’ore di pick up da Puerto Francisco de Orellana (El Coca, per gli ecuadoriani), capoluogo di una provincia che nuota in un mare di petrolio. Le multinazionali, tra le quali, non dimentichiamo c’è l’italiana Agip, qui fanno il bello e il cattivo tempo. I loro sgherri piantano posti di blocco, chiedono documenti, si informano su chi sei e su dove vai. Non vogliono giornalisti o osservatori internazionali tra i piedi. Non è bello che si venga a sapere in giro per il mondo di quella specie di stupro sistematico cui i petroleros sottopongono quotidianamente il “polmone verde dell’umanità”! Così, ad ogni domanda, Eugenio ed io mentiamo regolarmente e spudoratamente. E pure senza sensi di colpa. La carretera scorre accompagnata da chilometri e chilometri di tubi. Tubi di tutte le misure e di tutte le dimensioni. Con un solo denominatore comune: sono fatiscenti e senza valvole di sicurezza. I petroleros puntano sulla quantità perché la qualità del crudo non è delle migliori e l’Amazzonia non ha rivali su questo fronte. Anche se una perdita inquina un’area grande come il lago di Garda, il profitto complessivo non ne risente. ”Ne risente il colono o l’indigeno che vede morire il bestiame e ammalare i figli e non può farci niente – mi racconta Diocles Zambiano, leader della rete per i diritti umani Angel Shingre -. Lamentarsi o sporgere denuncia è cosa poco intelligente. Arrivano gli sgherri dei petroleros e la polizia a menarti con l’accusa di aver sabotato i tubi”. Angel Shingre è il nome di un campesino che, per l’appunto, si è lamentato una volta di troppo.
Diocles è stato uno promotori del grande “paro” del 2007 che vide l’intera comunità di Dayuma –campesinos e indigeni insieme – bloccare per oltre una settimana la strada che collega El Coca con i pozzi. Gli sgherri stavolta non bastarono a riportare l’ordine. E neppure la polizia. Ci vollero mezzi blindati e 3 mila uomini dei reparti speciali ecuadoriani, espressamente inviati dal compagno presidente Rafael Correa (ma sì! quello che parla tanto di socialismo!). Prima di capitolare la comuna si difese utilizzando lo stesso tritolo con cui i petroleros effettuano la cosiddetta introspezione sismica, esplosioni a varie profondità per verificare la portata del giacimento, e riuscirono a far saltare in aria un paio di autoblindo.
Una targa, posta lo scorso anno all’entrata del municipio di Dayuma, commemora il grande “paro” e la durissima repressione che ne seguì.
“E’ vero, il compagno Correa ha nazionalizzato qualche impresa petrolifera ma le imprese statali si comportano come le multinazionali straniere se non peggio - mi spiega Diocles-. Ha mandato via gli americani dalla base di Manta ma ha chiamato i cinesi… Fa l’amicone con Chavez che è un altro bel tipo che massacra l’ambiente e calpesta i diritti dei popoli indigeni. La verità è che il comunismo è una mierda proprio come il capitalismo perché sotto sotto l’idea di economia insostenibile che perseguono è la stessa”.
Grazie alla junta paroquial (come dire, il consiglio comunale) di Dayuma, riusciamo a raggiungere, ad un solo giorno di viaggio, la comunità waorani Tobeta per parlare col loro “capo di guerra”
Marco (il suo nome spagnolo. Quello waorani proprio non l’ho capito…)
E’ un momento delicato. Due giorni prima (il 12 agosto), alcuni waorani presumibilmente “non contattati” hanno massacrato una intera famiglia di coloni. L’aggressione è avvenuta a pochi chilometri di distanza da Dayuma. Madre, padre, un figlio e una figlia tutti uccisi a colpi di lancia. Gli aggressori sono poi fuggiti nella foresta con il terzo bambino, un bebè di pochi mesi, lasciando otto lance di guerra piantate nel petto della madre.
Marco arriva in tarda serata e ci riceve dopo che abbiamo compiuto tutti i rituali di ospiti: bere la cicia, consegna dei regali (due bottiglioni di coca cola taroccata), presentazione agli anziani e alla sciamana. E’ preoccupato e soddisfatto al tempo stesso. Preoccupato perché teme che il massacro pregiudichi i mai idilliaci rapporti tra coloni e waorani. Soddisfatto perché poche ore, e grazie all’aiuto del suo cane, fa è riuscito a ritrovare il bambino ancora vivo abbandonato in una pozza d’acqua. “Abbiamo battuto la foresta gridando nella nostra lingua che anche noi siamo waorani, che vogliamo solo il bambino rapito e che non vogliamo fare del male a nessuno. Hanno lasciato il bimbo ma non ci hanno risposto. E se non vogliono farsi trovare non c’è niente da fare – racconta Marco – Certo, non posso giustificare il massacro di innocenti che hanno compiuto. Ma dobbiamo tener conto che sono terrorizzati. Vedono morire la foresta attorno a loro, non capiscono quel che succede e non sanno distinguere tra giusti e innocenti, tra petroleros e campesinos. Ma noi waorani Tobeta abbiamo gli occhi per vedere i nostri figli giocare sui tubi di crudo e ammalarsi. E abbiamo ancora la saggezza di ricordare l’epoca non lontana in cui mio padre guidava i nostri cacciatori contro i bianchi. Voi siete ospiti e amici, e potete fermarvi quanto volete, ma in cambio dovete dire al mondo che i waorani non lasceranno morire la foresta che è la loro vita. Siamo un popolo guerriero e siamo pronti a riprendere in mano le lance per cercare quanto meno una morte dignitosa”
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